Un tavolo al centro della scena, coperto da una tovaglia rossa e imbandito per i commensali, e un ciocco di legno, luogo di pensiero e tragedia, sono il mondo attorno a cui gira tutta la narrazione di un Amleto sui generis.
All’ingresso degli attori tutto prende forma, anche il ripiano acquista luce e importanza. Quello che immediatamente colpisce l’occhio vigile e scrutatore dello spettatore è la totale assenza di abiti di scena: sono gli attori a dare significato al quadro teatrale. Si avranno, così, un Amleto vestito di nero con tanto di cravatte dalle accese tonalità; Gertrude, la regina, l’unica con un abito di scena che ricorda più cenerentola che una sovrana; Claudio, re di Danimarca, con tanto di cilindro e abito scuro non proprio regale; Polonio, vestito più da barbone che da consigliere di stato; Laerte, figlio di Polonio, uno studente universitario squattrinato.
La scelta degli abiti dimostra la volontà di far apparire i protagonisti come gente comune, vicina alla realtà quotidiana. Non a caso i diversi tipi di abbigliamento rispecchiano la società attuale, fatta di gente eccelsa e mediocre, ricca e povera, buona e malvagia.
Il tavolo, attorno a cui tutta la storia gravita, è la mistificazione dell’occidente che ha paura di raffrontarsi con il mondo esterno e ne subisce passivamente gli eventi. Il grido dell’anima cade nell’oblio e l’unico pensiero è arricchire le proprie viscere.
Il ciocco di legno assume un significato speciale all’interno della scena. I personaggi trovano rifugio dal marciume che li circonda, è come una placenta protettiva che ne preserva la purezza. Ma, è anche il luogo che esalta la morte di Ofelia e le apparizioni del fantasma, ultima occasione di gridare il proprio dolore a chi non ha voluto e saputo ascoltare.
L’intero spettacolo è l’insieme delle parti: al termine di ogni scena le luci si spengono, e lo spettatore vive l’emozione di vedere una serie di diapositive. Ampiamente rivisitato nella forma ma non nei dialoghi, l’opera shakesperiana acquista una luce tutta familiare e genuina. I giovani attori interpretano i loro ruoli con passione e quel pizzico di parlata milanese che li rende benevolmente “caserecci” e più vicini al pubblico in sala.
La rottura con la tradizione è netta e voluta, in alcuni casi davvero stravagante: lo spettro del defunto sovrano, padre di Amleto, dal forte accento siciliano, davvero non passa inosservato. Ma, non è tutto. La rivisitazione scenica ha interessato anche le figure di Rosencrantz e Guildenstern, amici di Amleto, rappresentati come due sciocchi e viscidi cospiratori, con un abbigliamento che tanto ricorda i vecchi film francesi in bianco e nero ambientati nelle rue parigine.
La conclusione della tragedia è davvero singolare. Dopo un duello all’ultimo sangue tra Amleto, che stringe in mano un forcone a due punte, e Laerte, che impugna un cucchiaione di ferro, in cui tutti i principali personaggi perdono la vita a causa delle ferite e del veleno, un sottofondo di musica mediorientale annuncia l’arrivo del principe Fortebraccio, in tenuta araba!
L’ennesimo accusa rivolta al mondo occidentale che, preso dai suoi drammi, si lascia sfuggire di mano la propria identità e il suo territorio. Una rappresentazione coraggiosa in cui non sono mancati l’originalità, la coesione del gruppo, la capacità di arrangiarsi con pochi mezzi e la voglia di mettersi alla prova con una grande opera del teatro mondiale, senza rinunciare ad un pizzico di farina del proprio sacco.
Milano – Teatro della Memoria – 30 ottobre 2007
Visto il
al
Della Memoria
di Milano
(MI)