“Andrea Chénier” mette in scena il Settecento attraverso una semplificazione quasi didascalica. Il librettista Luigi Illica, manipolando liberamente le fonti e modificando a suo piacimento il profilo dei personaggi storici, estremizza tutti gli ingredienti che ha a disposizione. Da una parte, l’ambiente aristocratico di provincia raffigurato in apertura è la quintessenza dell’Ancién Regime incipriato e vacuo, popolato da personaggi leziosi ed egoisti che restano sordi di fronte alle sofferenze dei derelitti. Il versante opposto, vale a dire il contesto urbano del Terrore, è invece dominato da una pesante retorica rivoluzionaria e attraversato da figure prive di sfaccettature che incarnano ‘tipi’ paradigmatici (il delatore, il pubblico accusatore, ecc.). All’interno di questo tessuto drammaturgico fin troppo schematico, il giovane Umberto Giordano (all’epoca del debutto milanese di “Chénier” nel 1896, il maestro foggiano non aveva ancora compiuto trent’anni) si muove con disinvoltura ed esibisce una scrittura sapiente, consapevole e varia. Per evocare il secolo passato, ad esempio, utilizza la pennellata ‘in stile’ della gavotta, ma anche il vagheggiamento nostalgico del coro di pastorelle, nel quale si intravedono i fragili contorni di un’ormai impossibile Arcadia. Nei momenti dello slancio patriottico o sentimentale, invece, dispiega un canto generoso e pieno che si spinge fino a picchi plateali nei passaggi più sostenuti.
Nello spettacolo proposto in questi giorni al San Carlo di Napoli (che proviene da un fortunato allestimento del Regio di Torino), i contrasti che percorrono l’opera vengono assecondati e anzi rimarcati. Le enormi parrucche ultrasettecentesche dei nobili, ad esempio, disegnate da Luisa Spinatelli, servono a evidenziare l’alienazione grottesca di una classe che esaspera i propri simboli nel vano tentativo di esorcizzare il crepuscolo incombente. Di contro, il dinamismo vitale e disordinato dei rivoluzionari trova un’efficace trasposizione nella scorrevolezza dei movimenti d’insieme immaginati da Lamberto Puggelli, la cui regia è stata ripresa per l’occasione da Salvo Piro. Un’invenzione molto riuscita suggella la conclusione del primo quadro: il ritorno della gavotta dopo l’irruzione dei poveri non è accompagnato da un’effettiva ripresa delle danze, ma dalla visione spettrale degli aristocratici impiccati e da una mesta marcia di sopravvissuti che avanzano nell’infuriare della tormenta. Le scene di Paolo Bregni sono segnate da una monumentale uniformità; efficace risulta l’ampio livello praticabile che accoglie una parte dell’azione nelle fasi più complesse e affollate; meno convincenti paiono invece gli elementi mobili costruiti a mo’ di alte impalcature, che non sempre bastano a differenziare i contesti.
Dal podio, un veterano del calibro di Nello Santi (classe 1931), applauditissimo dal pubblico partenopeo, riesce a tenere insieme le diverse anime della partitura offrendo a ciascuna il giusto passo e il respiro appropriato. L’orchestra suona con precisione e varietà di spessori, mentre il coro, diretto da Marco Faelli, non va esente da qualche imprecisione.
Nel cast vocale spicca il Carlo Gérard di Sergey Murzaev, che si fa apprezzare per il bel colore, il volume, l’espressione e l’impeccabile dizione. Generosa e appassionata, ma forse priva di adeguate sfumature, è la prova di Antonello Palombi nei panni di Andrea Chénier. Viva e palpitante è la Maddalena di Coigny di Oksana Dyka, la cui voce, però, è parsa a tratti un po’ stridula. Accanto ai protagonisti sfilano Giacinta Nicotra (Bersi), Elena Traversi (la Contessa di Coigny), Gabriele Sagona (Roucher), Donato Di Gioia (Populus), Alessandro Fantoni (un “Incredibile”), Maurizio Lo Piccolo (il Romanziero e Fouquier-Tinville), Antonio Feltracco (l’Abate), Giuseppe Scarico (Schmidt), Gianvito Ribba (il maestro di casa) e Bruno Iacullo (Dumas). Una menzione merita Annunziata Vestri che con la voce e la recitazione valorizza l’episodio nella vecchia Madelon.