Capita assai di rado, ma capita. Capita che proprio al momento di andare in scena uno degli interpreti si senta improvvisamente male, mettendo in forse lo spettacolo. Eppure bisogna andare in scena, a tutti i costi, in qualche modo. Allora serve un sostituto, ma se al momento non c’è, occorre un guizzo d’ingegno o un bel colpo di fortuna: come è accaduto al Teatro Verdi di Pisa in occasione della prima di “Andrea Chénier”. E’ successo che il basso Juan José Navarro avesse un improvviso mancamento, giusto cinque minuti dal levar di sipario, e si rendesse indispensabile non solo un ricovero in ospedale, ma anche reperire al più presto un rimpiazzo. La breve battuta che gli toccava come Maestro di Casa - «Questo azzurro sofà là collochiam» - si poteva magari affidare ad un corista; ma tutta la parte successiva, cioè quella del sanculotto Mathieu, è articolata e fondamentale: vuoi perché apre il secondo ed il terzo quadro con i suoi interventi, vuoi perché chiamata ad intervenire di frequente, che intoni la Carmagnola, soccorra Gérard ferito o inviti a dar «Passo ai giurati!». Bene, fortuna ha voluto che il regista di questo «Chénier» pisano, Carlo Antonio De Lucia, abbia anche un trascorso da tenore, e che indossate la livrea del Maestro e poi la giubba di Mathieu, abbia destramente intonato (chiedergli di cantarle a piena voce sarebbe stato troppo) tutte quelle battute, colmando così il vuoto lasciato dal basso valenciano. Spettacolo iniziato un po’ in ritardo, dunque, e dopo momenti di viva preoccupazione, ma in qualche modo approdato sano e salvo in porto.
Sesto titolo del generoso cartellone offerto dalla Fondazione pisana (cinque opere di grande repertorio, più tre lavori contemporanei e un titolo barocco, il “Flaminio” di Pergolesi) il capolavoro di Giordano poteva contare – almeno sulla carta – su una terna di voci importanti: requisito basilare in un’opera che da sempre è prova ardua temibile per ogni tenore, soprano e baritono.
Sulle tavole Verdi di Pisa, nel passato, il ruolo del poeta della Rivoluzione è toccato a personalità come quelle di Ettore Bergamaschi, Beniamino Gigli, Carlo Bergonzi; nel caso presente, l’averlo consegnato alle monolitiche corde vocali di Piero Giuliacci non ha giovato molto allo spettacolo, perché il tenore romano – cui non si nega il dono della naturale dote di una voce generosa ed ampia, né il possesso di mestiere ed esperienza – pare intendere il personaggio di Chénier a senso unico, puntando solo sulla potenza vocale e con poca voglia di colorare e di donargli sfumature, spingendo sempre il pedale sul ‘forte’. Così le ampie arcate melodiche, le ardue scansioni del registro centrale, ma sopra tutto i bruschi cambi di registro – croce e delizia di quanti si cimentano con il lessico di Giordano – finiscono per costituire un ostacolo pressoché insormontabile; e qualche problema di intonazione ravvisabile sin dall’inizio si accentua man mano nello sforzo di arrivare in qualche modo alla fine: e se l’Improvviso riesce persuasivo e pieno, nel duetto con Roucher (“E questo mio destino”) già si arranca un po’, ed arrivati a “Si, fui soldato” ci si trova d’un tratto al ‘rompete le righe’.
Anche la Maddalena di Rachele Stanisci non poteva soddisfare in pieno. C’era buona volontà nella ricerca delle gradazioni psicologiche, e s’avvertiva l’intento di costruire una figura a tutto tondo (ed in effetti il momento cruciale de «La mamma morta» veniva superato con espressività). E’ vero che tante grandi interpreti della Giovine Scuola erano avezze a cantare più con i nervi che con la voce, come s’usava dire; ma quei tempi sono passati. Il timbro tendenzialmente uniforme e qualche menda nella linea vocale (linea difficile assai, invero, poiché pure a questo suo personaggio Giordano ha impresso una scrittura spigolosa) costituivano un irrisolto impedimento, e tanti volenterosi sforzi cadevano di fronte alla difficoltà di mettere insieme una figura dai tratti ancora adolescenziali; una figura che, in effetti, con il soprano brindisino guadagnava quota e piena veridicità solo nella catarsi finale, dove nel suo canto la sognante contessina si trasforma in una consapevole martire d’amore.
Non avevo mai sentito prima Elia Fabbian nei panni di Gérard, e quindi ero assai curioso di vederlo alla prova con uno dei più poliedrici ruoli del teatro di fine Ottocento. La figura del lacché che si inserisce tra i leader della Rivoluzione procede lungo un’intrigante traiettoria psicologica, dalla cupa constatazione del suo stato servile (“Son sessant’anni”) alla commossa arringa tribunizia nel terzo quadro (“Lacrime e sangue dà la Francia”); e dall’amara ed assorta riflessione della scena successiva (“Nemico della patria!”) cede alla protervia erotica – che sarà di lì a poco subito smorzata – del “Io t’aspettava!” scagliato addosso alla povera Maddalena. Insomma, per me questo è il vero protagonista del capolavoro di Giordano. Bene: Fabbian ha molte chances – un robusto metallo, immediatezza d’accenti, generosa e squillante sonorità , canto morbido e un certo feeling con il pubblico – ma è indubbio che scenicamente e psicologicamente il suo Gérard debba essere ulteriormente approfondito, perché non si avverte diversità espressiva tra scena e scena, il che rende monocorde il suo personaggio; mentre il bravo baritono veneto può fare molto di più come testimoniano le sue varie prove verdiane (Rigoletto, Germont, Falstaff, Nabucco, Amonasro e via dicendo) giammai deludenti.
Per il resto, l’insieme dei comprimari che agivano in scena è parso più che valido, cominciando dalla brava Valeria Sepe che ha tratteggiato una deliziosa Bersi; molto bene anche Nicola Vocaturo (l’Abate ed un bieco Incredibile), Sofia Janelidse (Contessa di Coigny), Veio Torcigliani (ottimo Roucher), Tamta Tarieli (la vecchia Madelon), Eugenij Gunko (Schmidt e Dumas), Gianluca Tumino (Fléville e Tinville).
L’Orchestra Archè era nelle mani di Elio Orciuolo: è pur vero che da una compagine di recente formazione e dai ranghi in gran parte giovanili non si possono pretendere prodigi di precisione, ma lavorare con un po’ di fantasia, variando colori e dinamiche, dovrebbe essere comunque possibile anche in questo caso. Invece qui si è sentita un’orchestra gestita alla buona, spinta quasi sempre al massimo, chiassosa al punto da sopraffare sovente le voci; e quindi del tutto inidonea a rendere come si deve una della più belle e variegate partiture veristiche, cosparsa dal suo autore di tante minute annotazioni coloristiche. Per non dire che delle esigenze dei cantanti non mi pare che Orciuolo tenesse molto conto. Non sempre ineccepibile la prova del Coro Ars Lyrica preparato da Marco Bargagna, impreciso nella componente maschile.
Quanto alla giudiziosa regia di Carlo Antonio De Lucia, improntata alla più tranquilla tradizione, direi che ha assolto efficacemente al compito di spingere l’azione in avanti, impostando un racconto comprensibile e componendo con accortezza ogni singola scena musicale. Nella più tranquilla ortodossia anche le belle scene ed i costumi d’epoca di Alessandra Polimeno, con fondali architettonici che descrivevano il salone del castello di Coigny, un’ariosa piazza parigina, il Tribunale e la tetra prigione di Saint-Lazare. Sala piena in ogni ordine di posti, pubblico generalmente soddisfatto, qualche contestazione indirizzata alla direzione d’orchestra.
Per inciso, ripresosi rapidamente dalla sua improvvisa indisposizione Juan José Navarro si è poi tranquillamente esibito nella seconda recita della domenica, consegnando finalmente il suo Mathieu.