Lirica
ANDREA CHéNIER

IL RITORNO DI MARCELO ALVAREZ

IL RITORNO DI MARCELO ALVAREZ

Nella fitta programmazione del Regio opere “popolari” convivono con capolavori meno frequentati e in questi giorni si sono alternati  sul palcoscenico torinese due classici del repertorio accomunati dall’ambientazione parigina:  “La Bohème” e “Andrea Chénier”.
L’opera di Giordano è andata in scena nel noto allestimento di Lamberto Puggelli, spettacolo d’impronta tradizionale visivamente accurato e fedele al testo, sempre efficace nonostante gli anni e le numerose riprese, che ha il pregio di dare giusto rilievo alla cornice storica e di collegare con efficacia i due piani narrativi, l’individuale ed il collettivo.
Con trasformazioni sceniche a vista, Paolo Bregni ricrea con naturalezza (merito anche delle luci di Bruno Ciulli e degli splendidi costumi di Luisa Spinatelli) i diversi ambienti in cui si dipana la vicenda scandendo le fasi della Rivoluzione francese. Particolarmente riuscita la transizione dall’ancien regime alla rivoluzione,  preannunciata dall’arrivo dei miserabili condotti da Gérard, illuminati nel loro avanzare da una luce ocra che stabilisce a livello iconografico un rimando con il quadro di Pelizza da Volpedo. La scena si svuota poi dalle leziose volute del giardino d’inverno e i nobili incipriati dalle smisurate parrucche bianche s’inabissano a passi di gavotta, inghiottiti dal palcoscenico che si abbassa, illuminati da una luce livida. La transizione storica viene completata dalla sequenza successiva che vede l’avanzare di  rappresentanti del popolo che spostano a vista imponenti architetture lignee che evocano la ghigliottina o la prigione e che, diversamente posizionati, chiuderanno la scena per isolare un momento di introspezione o aprire la prospettiva in un contesto più ampio per le scene di massa.
La scena è talvolta divisa in due piani, un primo piano dove si muovono i protagonisti e un livello superiore dove i si muovono veloci  le masse tra i tricolori; sullo sfondo vedute di una Parigi settecentesca dalle sfumature azzurrine o un cielo plumbeo  presago di un’alba di morte.

Nel ruolo principale avevamo già apprezzato Marcelo Alvarez  qualche anno fa a Parigi e anche in questa occasione si osserva come il tenore argentino abbia un rapporto privilegiato con Chénier, a cui infonde con voce generosa e partecipazione emotiva, anima e calore. Per poter decollare quest’opera richiede al tenore  la capacità d’infiammare il pubblico con un canto travolgente e ci ha fatto piacere ritrovare in Alvarez  (assente da qualche tempo sulle scene internazionali), oltre all’indiscussa bellezza timbrica, un canto saldo e pieno di slancio (che ha scatenato richieste di bis nell’Improvviso), capace  di scavo e sfumature, in equilibrio fra ripiegamenti lirici ed espansioni drammatiche.
Maria José Siri (subentrata nella produzione  in sostituzione di Micaela Carosi) crea una Maddalena credibile, inizialmente civettuola e capricciosa, poi consapevole e matura, senza nulla sacrificare alla giovanile freschezza del personaggio. La voce non sarà particolarmente caratterizzata dal punto di vista timbrico, ma  è usata con musicalità e gusto e la  “Mamma morta”  è commovente al punto giusto.
Alberto Mastromarino risolve Carlo Gérard  in chiave “verista”, puntando più sulla possanza vocale (peraltro notevole, nonostante qualche compiacimento di troppo)  che non sull’introspezione, per cui certi aspetti del complesso personaggio vengono sottaciuti; non a caso convince più nelle pagine drammatiche e  roventi come  “Son sessant’anni” e  “Nemico della patria” che non nei momenti di  riflessione e indugio.
L’opera abbonda di ruoli minori,  fra quelli femminili segnaliamo le buone prove di Giovanna Lanza (la mulatta Bersi) e di Chiara Fracasso, che ha saputo caratterizzare diversamente la Contessa di Coigny e la vecchia Madelon. Bene Gabriele Sagona nel ruolo di Roucher, Federico Longhi  è un Mathieu sonoro e di efficace comunicativa. Corretto l’Incredibile di Gianluca Floris. Lezioso quanto basta il Fléville di  Matteo Peirone, decisamente bene l’abate di Luca Casalin. Fra gli altri comprimari ricordiamo il  Fouquier Tinville di Scott Johnson,  il carceriere Schmidt di Fabrizio Beggi, il Dumas di Franco Rizzo ed il Maestro di casa Gheorghe Valentin Nistor.

Non convince in questo repertorio Renato Palumbo, che adotta una lettura fin troppo verista enfatizzando oltremisura i contrasti con sonorità accese e tempi serrati. L’indulgere al forte e a una drammaticità esasperata (ma esteriore), se funziona nella progressione narrativa, non valorizza la partitura nei momenti di lirismo e pastiche settecentesco e soprattutto penalizza le voci, spesso coperte da una massa orchestrale non sempre sotto controllo. Preciso come sempre il coro diretto da Claudio Fenoglio.

Teatro strapieno (a Torino è ormai una piacevole consuetudine!), meritate ovazioni al tenore, calorosi applausi agli altri interpreti e qualche fischio al direttore.

Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)