Angelo Dolce, di Bernard Marie Koltès: uno spettacolo agghiacciante e muscolare per il saggio di fine corso degli allievi della scuola di recitazione Mariangela Melato, al Teatro Nazionale di Genova. Dopo due anni i registI Alberto Giusta e Carlo Orlando – entrambi docenti della scuola diretta da Elisabetta Pozzi – hanno messo i loro allievi sulla sedia elettrica e gli hanno fatto fare questo spettacolo come prova finale del loro percorso didattico.
I ragazzi, con l’incoscienza e l’entusiasmo tipici dell’età, hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo e si sono dedicati anima e corpo alla sua creazione: ottenendo un risultato eccellente e tutt’altro che scontato. Tutti bravissimi, ciascuno nella sua parte, capaci di essere credibili anche rappresentando l’iperbole.
Non cercate uno spettacolo intitolato Angelo Dolce tra le opere del drammaturgo francese: non c’è. Koltès ha scritto invece Roberto Zucco, mettendo in scena la storia vera del serial killer italiano Roberto Succo, lo psicopatico assassino pendolare tra Italia, Francia e Svizzera negli anni 80. Quando ha concepito la sua opera, Koltès sapeva già che sarebbe morto di Aids da lì a poco: e l’inevitabile pessimismo nel suo testo si vede tutto.
A parte “Lotta di negro e cani” Koltès non è uno degli autori più rappresentato in Italia, quindi non ci sono molti riferimenti interpretativi della sua opera: lo hanno comunque trattato registi come Giampiero Solari, Filippo Timi, Mario Missiroli ed Elio De Capitani. Dal canto loro Giusta e Orlando hanno deciso di sfruttare al massimo le caratteristiche anche fisiche dei loro attori, creando uno spettacolo minimalista nella forma e sopralerighe nella recitazione e nel gesto, che sono sempre iperbolici, paradossali, esagerati, violenti. Ecco, soprattutto violenti.
Angelo Dolce è un ossimoro voluto e costruito passo dopo passo. Nello spettacolo non c’è nulla di angelico né di dolce: è tutto buio, cupo, crudele, brutale, senza speranza. Due ore di male che vince e bene che semplicemente non esiste. Spettacolo minimalista, si diceva. Giusta e Orlando qui hanno portato alle sue estreme conseguenze il concetto secondo cui nel teatro la realtà è un concetto relativo: e le cose hanno il significato che noi – attori e spettatori – per convenzione abbiamo deciso di dargli.
Su questo palcoscenico ci sono una porta e una finestra, che si spostano su ruote e che vengono usate indifferentemente per entrare e uscire negli ambienti cui alludono. Ci sono una pedana di legno, anch’essa con ruote, e un lenzuolo sotto cui si nascondono cose e persone. E stop. La scenografia è funzionale alla drammaturgia.
E’ un mondo claustrofobico. Le porte e le finestre vengono usate in continuazione, ma non servono: tutti restano sempre nello stesso posto, anche dopo essere usciti. Non si può uscire da quel mondo, nessuno può uscire dalla sua storia. E che dire del controllo?
Qui tutti i personaggi vogliono controllare qualcosa o qualcuno (il proprio istinto omicida, la famiglia, i detenuti, le proprie prostitute-lavoranti): ma i muri in questa scena non ci sono, ed è impossibile contenere un magma che sfugge da tutte le parti anche se resta sempre nello stesso posto.
Anche i costumi di Lorenzo Rostagno sono una sorta di stracci che alludono a diversi ambiti e situazioni più che vestire. E’ tutto basato sulla fisicità degli attori e sulla potenza dei loro corpi giovani. Come nelle coreografie sfiancanti di Claudia Monti o nei cori da tragedia greca di Silvia Piccollo. E’ uno spettacolo per under25: non in platea ma sul palcoscenico.
Gli stessi Giusta e Orlando, benchè siano ben conservati, non potrebbero affrontare due ore così. Il protagonista ha la faccia d’angelo, ma non ha alcun problema ad ammazzare la gente: come ha fatto con i suoi genitori, del resto. Il rovello psichiatrico-etico che dovrebbe condizionare il cervello di un serial killer semplicemente non c’è.
Angelo Dolce/Roberto Zucco è l’incarnazione del male, puro e semplice e fine a sé stesso. Non c’è modo di fermarlo perché evade, né di eliminarlo perché risorge. Però quella deposizione del Cristo dalla Croce, nel finale, sul modello di Jesus Christ Superstar, ci saremmo volentieri risparmiati di vederla. Roberto Zucco come l’Anticristo? Non esageriamo.