Lirica
ANNA BOLENA

Anna Bolena a cavallo

Anna Bolena a cavallo

Quando apparve per la prima volta nel dicembre 1830 sulle tavole del Teatro Carcano "Anna Bolena" segnò la consacrazione artistica di Donizetti sulla difficile piazza milanese, riscattando lo smacco di "Chiara e Serafina" patito dieci anni prima al Teatro alla Scala. L’eccellente testo di Felice Romani si mostrò un valido supporto letterario per un musicista che, superata ormai la soglia della trentina, era perfettamente in grado di elaborare mediante un linguaggio maturo e fortemente incisivo una struttura drammatica vigorosa e di ampie proporzioni. Tra l’altro, qui più che altrove le consuete formule musicali bagaglio d’ogni buon compositore dell’epoca, grazie ad una fortissima capacità espressiva ed all’intuito drammaturgico passano in secondo piano, eliminando ogni discrasia tra i passaggi narrativi dei recitativi e quelli meditativi e lirici dei pezzi chiusi. Si realizza in tal modo un flusso musicale trascinante ed avvincente, pur ponendo il pubblico di fronte a due atti di circa un'ora e mezza ciascuno. E non vale l’obiezione che una buona parte delle musiche di "Anna Bolena" derivino da lavori precedenti, più o meno fortunati: la rifusione di qui pezzi nella nuova partitura - mediata dagli accorti consigli di Giuditta Pasta, la prima protagonista - conferisce loro una nuova, accesa vitalità. Una svolta decisiva, dunque, un segnale della genialità di Donizetti che sino ad allora non aveva brillato particolarmente nel panorama artistico italiano, mediante la proposta di una partitura che appare rivolta decisamente in avanti, preludendo ad un futuro decennio di sbalorditiva creatività.
Per le recite milanesi il musicista bergamasco poteva far conto - oltre che sulla celebre Giuditta Pasta - sulla splendida voce di Giambattista Rubini, il primo tra i grandi tenori chiari ed acuti, alfiere d'una tipologia - inaugurata dal Gualtiero de "Il Pirata" belliniano - che determinò il declino dell'interesse per i tenori baritonali che avevano sino ad allora imperato nelle parti virili principali.  Parliamo d'una voce soave, permeata d'una vena melanconica, in grado di arrampicarsi con eleganza e leggerezza attraverso tessiture arditissime e talora concitate, come appunto quelle di Riccardo Percy. Impresa ahimè praticamente impossibile alla stragrande maggioranza dei tenori d'oggidì. Sarà per questo che, a partire dalla definitiva resurrezione callasiana di questo capolavoro giovanile di Donizetti  - operata nel 1957 sotto l'autorevolissima bacchetta di Gavazzeni - l'attenzione si è spostata maggiormente verso la figura simmetrica di Anna, alla quale non mancano fior fiore di momenti musicali. La Callas ne accentuò il versante più tragico e doloroso; Mariella Devia preferisce imprimervi patetici languori e femminea tenerezza, sentimenti più prossimi alla figura d'una donna ancor giovane - benché già madre della futura regina Elisabetta - quale in effetti era la seconda moglie di Enrico VIII°. Aleggia nella sua interpretazione un velo di struggente mestizia ed una tenera umanità, le quali contribuiscono insieme a rendere il suo personaggio assolutamente veritiero, con una raffigurazione che nel delirio appassionato eppure soave dell'ultima grande scena raggiunge tratti veramente sublimi. Aggiungete un controllo della voce ancora assoluto, con gravi saldamente resi e salite ascensionali affrontate con impervia sicurezza, l'eleganza del fraseggio nelle ornamentazioni di grazia come nell'agilità di forza, e vi sarete fatti un'idea di cosa possa essere l'Anna della grande cantante ligure, affrontata per la prima volta nel 2007 al Teatro Filarmonico di Verona iniziando il percorso della cosiddetta 'Trilogia Tudor' poi portato avanti nel 2008 alla Scala con "Maria Stuarda", e nel 2011 a Marsiglia con il "Roberto Devereux".
Purtroppo altrettanto non si può certo dire per lo spagnolo Albert Casals chiamato all'ultimo a sostituire Celso Albelo, perché i mezzi vocali messi in campo e una certa immaturità interpretativa non erano decisamente bastanti a rendere sufficiente credibilità alla figura di Percy, anche per alcuni strategici tagli apportati alla parte (vedi il «Vivi tu te ne scongiuro»). Ben altra tempra vocale dimostrava Luiz-Ottavio Faria, nei panni - adeguatamente larghi, la realtà storica qui veniva rispettata - di Enrico VIII°: magari la torva maestosità del singolare sovrano inglese forse latitava, ma il timbro messo in campo dal basso brasiliano sa sedurre, morbido ed imperioso al tempo stesso, la voce risalta piena dall'emissione solida e incline al canto d'agilità - anche se qui espresso da Donizetti in termini lineari. Eccellente, com'era lecito aspettarsi, la Seymour di Laura Polverelli - altra sostituzione imprevista, al posto di Tiziana Carraro - parte affrontata con la consueta eleganza e con molta intelligenza. Più che soprano, come giustamente osservava Rodolfo Celletti, Giovanna è ruolo da soprano grave o, come s'usava dire un tempo, un soprano «limitato»: la Polverelli, mezzosoprano chiaro e a suo agio nel registro brillante, realizza molto bene la tessitura intermedia prescelta da Donizetti. Mediocre lo Smeton di Elena Traversi; Lord Rochefort era affidato a Federico Benetti, Sir Hervey a Max René Cosotti.
La concertazione di Boris Brott, direttore canadese apprezzato l'anno scorso sempre a Trieste con "Samson et Dalila", era condotta con grande competenza, e creava una cornice strumentale apprezzabile; ma non sapeva evocare quella tragica atmosfera romantica che è propria a quest'opera, e che ne esalterebbe ben altrimenti l'intensa teatralità. Buona comunque la perfomance dell'Orchestra e quella del Coro del Verdi.
Graham Vick ha dato prova di insolita sobrietà registica in questo spettacolo, già visto nel marzo 2007 al Filarmonico di Verona (e che qui era ben ripreso da Stefano Trespidi), offrendo una visione serrata e potente del drammatico contrasto di passioni e interessi, con in più qualche piccolo coup de thêatre. A suggerire ambientazioni d’epoca le lucide trasparenze plastiche e le immaginifiche architetture di Paul Brown, sempre in movimento; a lui si devono anche i costumi, a volte pertinenti, altre volte a mio parere improponibili, come nel caso della povera Giovanna e dei bruttissimi abiti dei coristi.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)