La precarietà è il tema dominante di questo allestimento parmense di Anna Bolena, pensato dal regista Alfonso Antoniozzi, una precarietà che non investe solo la regina e il suo sentire, ma tutto l’universo femminile della corte sul quale la componente maschile seguita a compiere atti di prevaricazione e violenza. A nulla giovano i frequenti abbracci muliebri che altro non sono se non un flebile palliativo, un simbolico sostegno: l’incertezza e le paure dominano la scena. Simbolo concreto di questo clima di insicurezza è il fatto che Anna, al contrario di Enrico, non siede mai su un trono stabile e solido, bensì sempre su un trono di “carne”, creato appositamente per lei dalle braccia di quattro mimi che la accolgono fra loro in un vacillante equilibrio che ben identifica la situazione in cui versa tutta la corte inglese.
L’allestimento si avvale di pochi arredi scenici: una piattaforma centrale fissa corredata da alcuni elementi lignei di fattura goticheggiante, che non spiccano certo per solidità, spostati dagli onnipresenti mimi a seconda delle diverse esigenze; sul fondo alcune videoproiezioni piuttosto statiche pensate, come il resto delle scene, da Monica Manganelli. L’azione viene spostata negli anni Quaranta del secolo scorso, sfruttando però alcune non sgradevoli incoerenze temporali, date ad esempio dalle gorgiere inamidate indossate dai mimi. Di non grande gusto i costumi pensati da Gianluca Falaschi che a tratti, come nel caso del mantello indossato dalla regina in carcere, hanno quasi un retrogusto di plastica poco convincente. Decisamente più eleganti gli abiti da sera indossati dal coro che interviene sempre ai lati della piattaforma centrale assistendo al dramma mentre brinda in calici di cristallo, quasi fosse a una festa di gala.
Di grande spessore la Anna Bolena di Yolanda Auyanet che spicca per doti vocali e per capacità interpretative; la linea di canto è solida in tutti i registri, la voce piena e corposa, l’identificazione con la figura della regina totale, sia nella fierezza del portamento, sia nello scatto nervoso che palesa tutta l’emotività repressa di una donna che cerca di porre un freno alle proprie paure. Al suo fianco Sonia Ganassi nei panni dell’amica-nemica Giovanna Seymour palesa la sua grande esperienza di interprete del ruolo: tutto è mirabilmente misurato e calibrato, la voce è ben dosata, il personaggio dimesso e schivo, succube della forza di Enrico più che della sua attrattiva. Riccardo Zanellato è un Enrico dai modi rozzi e duri, pervicace nel conseguire i propri intendimenti; la voce non ci è parsa particolarmente limpida, ma il piglio autorevole e il buon dominio della scena decretano la piena riuscita del ruolo. Registro acuto e centrale molto solidi ed eccellente perizia tecnica per Giulio Pelligra che ben veste i panni di un Percy ardimentoso e audace. Grande dolcezza nella linea di canto e ricchezza di colori per lo Smeton di Martina Belli che la regia non ha voluto travestita da ragazzo. Bene anche il Rochefort di Paolo Battaglia e l’Hervey di Alessandro Viola.
Per quanto concerne la prova dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, diretta dal maestro Fabrizio Maria Carminati, va riscontrato un generale difetto di tensione drammatica, all’interno di una esecuzione della partitura che, a fronte di una innegabile correttezza, ci è parsa però caratterizzata qua e là da un’eccessiva pesantezza e, al contempo, da una genericità un poco standardizzata.