Anna Bolena debutta al teatro Carcano di Milano in inverno, nel dicembre 1831, appositamente commissionata, come La sonnambula di Bellini per il successivo marzo; contemporaneamente si inaugura il nuovo anno alla Scala con I Capuleti e i Montecchi di Bellini: “una stagione eccitante” la definisce Franca Cella nel programma di sala del Comunale di Firenze.
In un'intervista il regista di questo allestimento che proviene da Verona e Trieste, Graham Vick, dichiara di voler prendere le distanze dalle Anne Bolene di riferimento per costruire un teatro forte e cosciente, freddo e distaccato. Secondo lui Anna Bolena non è l'eroina romantica innocente ingiustamente condannata né la regina ammantata di tragica e dignitosa fierezza, ma la donna che ha venduto l'anima per diventare regina, rinunciando all'amore vero a vantaggio del potere: una donna che ora deve fare i conti con la propria coscienza, confrontandosi con il tramonto della sua vicenda personale in un inverno fisico e del cuore. Anna infatti non ha esitato ad abbandonare Percy, l'amato marito, per farsi regina, credendo così di essere felice senza considerare la transitorietà delle passioni e il rischio che la storia si ripeta. Così Enrico dice a Giovanna: “Anna pure amor m'offria, vagheggiando il soglio inglese, ella pure il serto ambia dell'altera Aragonese... L'ebbe alfin: ma l'ebbe appena, che sul crin le vacillò; per suo danno, per sua pena, d'altra donna il cor tentò”. Una donna che è costretta a vivere un inverno dell'anima che diviene stagione climatica.
A Firenze la regia di Vick è stata ripresa da Stefano Trespidi e l'apparato scenotecnico è stato adattato da Elena Cicorella, mentre le atmosfere sono ben rese dalle luci di Giuseppe Di Iorio, riprese da Gianni Paolo Mirenda. Il sipario rosso rimanda al fuoco della passione e dell'ambizione ma anche al sangue versato. Il contenuto del dramma, il cui finale è già scritto, è anticipato durante l'ouverture: le mogli di Enrico VIII, vestite con la stessa camicia da notte bianca ma riconoscibili da dettagli simbolici (il rosario, il libro) oppure dalla postura e dal modo di incedere rivelatore dell'animo, sfilano sulla scena per far capire la pletora degli amori di Enrico. La lunga pedana ha la forma di una croce e si orienta in maniera diversa a seconda dell'esigenza; quasi sempre presente un letto a baldacchino, attorno a cui si concentra l'azione dei personaggi. Il contesto figurativo è essenziale e stilizzato ma evocativo del periodo storico in cui si svolge la vicenda. Le scene di Paul Brown sono d'argento e di cristallo di rocca, architetture sospese su calle rosse o bianche oppure appoggiate precariamente sulla pedana. Suoi anche i costumi invernali in colori bui e metallici, tranne il re che pare al limite del ridicolo per colori e disegni. La scena della caccia ha due grandi cavalli-monumento su cui siedono il re e la regina: il paesaggio invernale, di grande impatto visivo, è dominato da alberi scortecciati; scende la neve che gela l'anima. Gelo che ritorna nella scena finale: sono fantasmi di bianco ghiaccio le figure della “iniqua coppia nuziale” che Anna vede attraverso la parete di vetro frantumata, metafora di un'esistenza distrutta.
Nella progressione della vicenda, alcuni simboli oggettivizzano i fatti: la luna diventa una corona di spine insanguinate (Anna canta “un serto io volli e un serto ebb'io di spine”), un'enorme spada di cristallo trafigge il proscenio, una grande testa bendata è metafora del cieco giudizio del tribunale. Prima del finale la neve diventa rosso sangue e le mogli che sfilano sono vestite a lutto. Convincente la scena della pazzia: Anna, tenendo fra le mani come fosse una bambola la lunga chioma recisa, suggerisce, nella reminiscenza del passato, automutilazione in senso punitivo e feticismo in senso rimembrativo. Ma Anna non finisce “pazza” come il pubblico si aspetta, piuttosto è addolorata per gli errori compiuti e si avvia, consapevole, verso il destino segnato: la parete di vetro in frantumi che lascia intravedere un patibolo. La fine dell'amore e della vita sociale che diventa la fine della vita.
Mariella Devia aveva debuttato il ruolo in occasione della prima a Verona nel marzo 2007 e la sua interpretazione risponde perfettamente alle intenzioni drammatiche di Vick, creando un personaggio intensissimo, tanto più che all'espressività gestuale misurata e pertinente corrisponde una grandissima espressività vocale, musicalissima, sempre tenuta sotto ferreo controllo che non cerca e non scade mai nel facile effetto; la Devia sfoggia tutte le sue abilità tecniche e belcantistiche e regala al pubblico un'Emozione maiuscola, da togliere il fiato; indimenticabile il suo “Al dolce guidami castel natio” cantato sdraiata a terra, schiacciata al suolo, tenendo i fiati lunghissimi e sfumando i suoni per prolungare un dolore straziante e infinito; con grande esperienza e intelligenza e avendo a disposizione un mezzo tecnico straordinario, la Devia risolve ottimamente anche gli insidiosi passaggi del registro centrale e le prodezze belcantistiche; insomma un'interpretazione magistrale a cui il pubblico ha tributato un vero trionfo con ovazioni urlate e applausi oceanici scroscianti e interminabili.
Straordinaria anche la Giovanna Seymour di Sonia Ganassi, destinata a ripercorrere in modo ineluttabile il percorso di Anna (su questo il registra insiste); la Ganassi ha voce magnifica che si infila in ogni piega dell'anima, rendendo in modo immediato e comprensibile ogni dettaglio di un ruolo difficile, giocato sull'ipocrisia ambiziosa e sulla voluttuosità della carne pur sepolta sotto pesanti coltri di abiti; struggente il momento che precede il finale, quando Anna appoggia la mano alla parete di vetro in frantumi e dall'altra parte la appoggia simultaneamente Giovanna, destinata a percorrere la stessa strada e avviata inesorabilmente allo stesso destino.
Shalva Mukeria ben sostiene la parte impegnativa di Percy, anche se i suoi slanci vocali appassionati sono a volte parsi al limite. Roberto Scandiuzzi ha il fisico e il portamento di Enrico VIII, sottolineato dalla postura con le mani chiuse a pugno puntate sui fianchi in modo da “allargare” la figura, che il regista vuole rendere in modo caricaturale, anche negli abiti (che diventano tali anche per Giovanna nel momento in cui la coppia diventa tale). Josè Maria Lo Monaco è brava nel rendere la passione di Smeton, un Cherubino romantico e allucinato: la voce scurissima si pone in gradazione con le due protagoniste in modo perfetto. A completare il cast Kostantin Gorny (Rochefort) e Luca Casalin (Hervey).
Roberto Abbado cura molto i suoni, che si stagliano con nitore; sceglie una direzione lenta e non leggera che non rende fino in fondo il piglio drammatico della partitura, pur sostenendo i cantanti in modo eccellente. Buona la prova del coro preparato da Piero Monti, schierato compatto come falangi macedoni in rigide geometrie che si ripetono negli abiti; i coristi sono sempre sul piano del palcoscenico, mentre i cantanti agiscono sulla pedana rialzata, come pedine di un gioco da tavolo.
Teatro esaurito, pubblico attento e preso dallo spettacolo, molti applausi soprattutto per Devia e Ganassi, un meritatissimo trionfo personale nel finale per la protagonista. L'opera era molto attesa in quanto debuttava al Comunale.