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APPUNTI PER UN FILM SULLA LOTTA DI CLASSE

Porto Sant'Elpidio, teatro de…

Porto Sant'Elpidio, teatro de…
Porto Sant'Elpidio, teatro delle api, “Appunti per un film sulla lotta di classe” di Ascanio Celestini IL COMUNISTA E' UN MARZIANO Dopo avere raccontato il mondo della fabbrica, la liberazione di Roma, la normalità dei matti, la tragedia della deportazione, dopo avere osservato, ascoltato e narrato la Storia, Ascanio Celestini guarda il presente, per riconoscere se stesso e chi lo circonda. Per porsi domande (a che serve altrimenti il teatro civile?). E per analizzare quello che significa, al presente, lotta di classe. Oggi che sono mutate le realtà delle classi sociali (esistono ancora?) e le prospettive dei rapporti sociali, oggi che le distanze tra le classi si presentano con minore evidenza di qualche decennio fa (basta pensare alla generazione dei genitori di noi trentenni) ma si dimostrano per certi versi più violente, rivelate da segnali diversi. All'inizio Ascanio non è in platea, come sempre, ma è in piedi dietro a un leggìo, al fianco di tre musicisti (Gianluca Casadei alla fisarmonica, Matteo D'Agostino alla chitarra, Roberto Boarini al violoncello); dice “questo non è uno spettacolo, ma solo quello che dice il titolo, appunti per un film sulla lotta di classe. Gli appunti sono circa 25, stasera ne faremo 15. Oppure 16. Più o meno..”. Gli appunti, gli studi, gli work in progress (brutta locuzione inglese che però esprime più esattamente che non la nostra “lavori in corso” - mi fa sempre pensare a situazioni stradali) sono sempre interessanti, anche solo per gli spunti e gli squarci che lascia intravedere sul definitivo. Solo che questo è un vero spettacolo, compiuto a tutti gli effetti, è un racconto, come tutti quelli di Celestini, seppure diverso dagli altri. Il narratore ha raccolto e rielaborato, come suo solito, una serie di storie reali per mettere in risalto soprattutto il venire meno di una serie di differenze culturali che caratterizzavano la società del passato prossimo e interrogarsi su ciò che resta, in un orizzonte più omologato, delle identità, della coscienza e della lotta di classe. Oggetto precipuo dell'indagine è il mondo del precariato, che non cambia quando cambia governo e parte politica, se non nella sigla, nell'acronimo, co.co.co. invece che co.co.pro., ma la sostanza permane, identica a se stessa, solo che invece che il vietato “cottimo” si chiama “contatto utile”, ma sempre lavoro a cottimo è. Sfruttamento. L'attacco è efficace: “Io sono un comunista. E dunque sono un marziano. Ho un'intelligenza superiore, come un comunista. E come un marziano. Sono un assassino degenerato, come un comunista. E come un marziano. Sono un'invenzione letteraria, come un comunista. E come un marziano”. Indubbiamente ha ragione, un comunista non è più di questa Italia. Come un marziano. Al centro della narrazione c'è un lavoratore precario, un “risponditore” nel call center Atessa, il più grande d'Europa, con quattromila operatori: non dipendenti, ma precari. Il suo è un esempio dello sfruttamento di classe dell'oggi e Celestini lo descrive con la consueta minuzia e capacità affabulatoria. Il flusso delle telefonate: il maniaco sessuale, il fascista omofobo, il ragazzino in vena di scherzi (è un numero verde, i genitori lo fanno chiamare, così è impegnato e non rompe loro le scatole in casa). La paga per numero di telefonate ricevute: 85 centesimi, lordi, per dueminutiequarantasecondi. E basta. Per cui ogni telefonata si interrompe dopo dueminutiequarantasecondi. Cade sempre la linea. Ma fino a dueminutiequarantasecondi l'operatore ascolta, ascolta tutti, sempre, a prescindere. Lui ascolta, raccoglie “pomodori”, cioè telefonate. Il “nostro” fa il turno di notte, quando gli sembra di lavorare di meno e di avere il giorno libero. Alle sei del mattino, con i mezzi pubblici, torna a casa, con la sua solitudine ed i suoi fantasmi. E pochi soldi, precari. A tempo determinato, determinatissimo.. Sullo sfondo ci sono le case popolari, dove un tempo si faceva l'amore all'unisono e ora si va al cesso all'unisono. Le casalinghe frustrate che vanno in televisione. I gatti. Dio, che si incontra al supermercato vestito da Paperinik, ben felice perchè sa sempre come la storia va a finire. Il lavoratore precario no, lui non lo sa come va a finire. Vive con una bomba che scoppierà “fra tre mesi”. E intanto lui lavora, tranquillo, mentre la scadenza si avvicina. E se in dieci si ribellano, intentano causa al padrone e vincono la causa (così tutti i lavoratori precari di quel call center debbono essere assunti), sette di quei dieci perderanno il posto, con l'unica colpa di avere messo quella bomba nelle tasche del padrone. Perchè nelle tasche del precario quella bomba prima o poi scoppia; nelle tasche del padrone mai: c'è sempre qualcuno che la disinnesca, a volte anche il governo, oppure i sindacati. Eppoi la famiglia di Ascanio: il padre stupito, la madre maniaca dell'igiene, il fratello imbecille. Eppoi una società appiattita e omologata, un contesto di consumismo e supermercati, prodotti vari, pubblicità, marchi famosi e soprattutto Esso, che tutto governa e a cui tutto tende: il denaro. Manca però quell'architettura di parole che impalcava i precedenti lavori di Ascanio; manca l'incanto epico e popolare, anzi popolaresco, quasi picaresco; manca la circolarità dei ritorni di situazioni e strutture narrative; manca quella poesia che si declina con la ripetizione; manca il respiro, anzi il Respiro. Resta il suo modo consueto di fare teatro, l'affabulazione verbale, con la novità della musica dal vivo. Ma non è un percorso nella memoria collettiva o individuale, civile e politica, intrecciata con quella familiare, quanto uno sguardo sull'oggi che non vuole commuovere, né fare arrabbiare. Solo far ridere. Ed è forse questo che mi ha convinto di meno. Nella platea, ridanciana e partecipe, scende il gelo durante la lunga e forte invettiva contro i froci, che non risulta subito chiaro trattarsi di ironia a fin di riso, una risata di certo amara basata sulle contraddizioni dell'ovvietà e sulla banalità del pregiudizio. Ascanio dice cose importanti e lo spettacolo vola alto nei momenti più poetici: il carillon che suona l'internazionale, il lavoratore precario che passa attraverso i muri, le battute inattese e stupefacenti (“che tu possa morire di morte lenta, sbranato da lumache”). Altri, invece, sono i momenti in cui il pubblico si diverte di più, applaude e ride, quando il contastorie si trasforma in cabarettista, anche su fatti recentissimi (il primo maggio, ad esempio, e la vicenda di un comico a piazza San Giovanni). Ma il pubblico ha sempre ragione? Visto a Porto Sant'Elpidio, teatro delle api, il 16 maggio 2007 Francesco Rapaccioni
Visto il
al Verdi di Pordenone (PN)