Prosa
ARANCIA MECCANICA

'Arancia meccanica' tra Brecht e Kubrick

'Arancia meccanica' tra Brecht e Kubrick

Arancia meccanica ha aperto la stagione 2014/2015 del Teatro Verdi di Padova mercoledì 5 novembre ed è cominciata bene.
Sarà dovuto prettamente ad una questione personale, ma rivivere un’eco brechtiana nell’adattamento di Gabriele Russo dell’opera di Anthony Burgess fa piacere ad una prima di stagione.
Vi chiederete forse se l’adattamento già pensato dallo stesso autore e messo nelle mani di Russo non abbia per caso citato l’opera di Kubrick; si l’ha fatto, e come evitarlo? Si tratta di necessità artistica: la verità in arte, del resto, non è qualcosa di “in-comprensibile” e solamente circoscrivibile? Non si fa dell’arte, soprattutto dell’arte cinematografica per natura e di una certa arte drammaturgica post brechtiana, una specie di allegoria che circumnaviga la verità raccogliendone i frammenti, ricomponendoli in mosaico per approssimarsi ad essa quanto più possibile?
Potreste forse non apprezzare questa visione messianica della verità, in cui il frammento viene salvato, recuperato, citato nella sua allegoria descrittiva. Potreste farlo se concepiste l’opera teatrale del ’900 come ancora simbolista, ma sbagliereste. Non apprezzereste quindi questo recupero di Kubrick. Non lo capireste punto; perché il recupero, che pur c’è stato e che per i simbolisti nostalgici potrebbe sembrare un recupero di contenuti nella messa in forma della piece teatrale, si è rivelato essere invece una necessaria volontà di portare in scena la struttura formale messa in gioco dal cinema.
L’uso della scenografia, le luci, la musica (ottima realizzazione da parte di Morgan), l’agito: tutto nella sua forma ha contribuito a rendere le scene di cui si compone Arancia meccanica un “sempre-presente-contemporaneo” velando qualsiasi linea cronologica racchiusa nei contenuti. Si rompe il forte rapporto di empatia creato tipicamente dal teatro simbolista per mettere tutto lì, davanti agli occhi, una scena accostata all’altra, non una scena dietro l’altra. Ciò che resta alla fine dello spettacolo è una meravigliosa allegoria teatrale della concezione moderna della realtà sociale: la Parigi di Atget nelle sue foto dei primi del ‘900 si avvicina più a questa messa in scena di quanto non lo faccia Arancia meccanica di Kubrick in quanto alla forma.
In tutto questo, ottimo Roberto Crea nelle scene (che, anche da sole, varrebbero tutto lo spettacolo),  buoni i costumi, emblema della tensione originaria Mosca-Londra; degna di nota ma non importante ai fini della buona “riproducibilità” dell’opera, qualche piccola difficoltà dei tecnici del suono che durante la messa in scena hanno faticato a gestire i microfoni degli attori.
Da vedere.

Visto il 05-11-2014
al Verdi di Padova (PD)