Lo spettacolo, in prima nazionale a Bologna, va in scena con un cast notevole di attori e attraversa l’Europa per circa trent’anni, dal 1911 fino alla conquista tedesca dell’Austria.
Dopo l’esordio ad Avignone, Architecture di Pascal Rambert – coprodotto da ERT – debutta a Bologna come prima nazionale al VIE Festival.
La pièce va in scena con un cast notevole di attori – Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anne Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Denis Podalydès, Pascal Rénéric, Laurent Poitrenaux e Jacques Weber – e presenta una famiglia numerosa di menti brillanti diretta da un padre autoritario che attraversa l’Europa per circa trent’anni, dal 1911 fino alla conquista tedesca dell’Austria.
La decadenza del corpo sociale
Nell’Architecture di Rambert la decadenza si coglie nell’immobilità esistenziale dei personaggi, dal linguaggio perentorio che descrive una realtà violenta e immutabile, nel languore che cede il posto alla vitalità improvvisa ma che si spegne nel fallimento della morte.
A proposito del titolo, Rambert afferma: “è una parola che uso per designare le relazioni famigliari e per parlare allo stesso tempo di una struttura che sembrava eterna, l’impero austro-ungarico[…]. È il grande momento della civiltà europea che a un certo punto crolla per una sorta di doppio suicidio: la Prima guerra mondiale e poi il nazismo e l’antisemitismo”.
Dall’esordio con una danza in cerchio della famiglia riunita si passa presto all’ira del padre (Jacques Weber) con un monologo acceso rivolto al figlio, ma l’atmosfera resta sobria e solenne. Nelle prime scene, la scenografia in stile biedermeier con divanetti, sedie e tavolini di color ciliegio e coperture ocra, si intona con i costumi chiari e le luci piene e calde: il bianco domina con toni prima glaciali e poi caldi e infine soffusi.
Interpretazioni fuori dal realismo: è la parola che va in scena
Man mano che i legami familiari si sciolgono e le tensioni aumentano, il linguaggio diventa più violento e acceso, talvolta così urlato da sembrare ridicolo, perché i personaggi restano sulla soglia dell’interpretazione realistica, il distacco necessario che consente alla parola, così come <Rambert ci ha abituato, di occupare spazio sulla scena.
I passaggi di tempo storico coincidono con il cambio di scenografia che si trasforma in ambiente Bauhaus, funzionale e razionalista con tavoli e divani di colore nero e dalle linee essenziali. Restano fissi sullo sfondo le colonne con i registratori che si accendono sul finale e richiamano volute ioniche.
I rapporti di questo corpo sociale in decadenza si chiudono nel silenzio della morte, davanti a un copione in divenire che scorre sulle pagine di nove portatili, dietro a grande tavolata che rimanda al cenacolo leonardesco.
Ho sempre letto nella parola “architettura” il principio, l’arché originario che si fa forma, e nella pièce di Rambert si riaccende il desiderio di un artifex che ripensi il nostro tempo e si prepari a “un’epoca che non avevamo immaginato”.