Bologna, teatro Comunale, “Pulcinella” di Igor Stravinskij e “Arlecchino” di Ferruccio Busoni
QUANDO IL REGISTA E' TROPPO PRESENTE, INUTILMENTE
Lucio Dalla è un eccellente cantante di musica leggera di fama internazionale, quasi un’icona della “bolognesità” e della canzone pop; si rivela invece approssimativo ed inutilmente ingerente nella regia lirica. Pulcinella venne scritto da Stravinskij per i Ballets Russes di Diaghilev nel 1919, all’inizio del periodo “neoclassico” dell’autore, in cui recupera alcuni stilemi del passato (Pulcinella ne è il primo esempio e The Rake’s Progress la conclusione), confezionando una partitura su musiche di Pergolesi e cercando di dare al balletto uno stile napoletano tardo-barocco, a cui aggiunse un collage di brani vocali dello stesso Pergolesi. Ne nacque un’azione danzante con una trama, seppur esile. Invece lo spettacolo visto a Bologna è apparso confuso. Si potrebbe dire che abbia avuto inizio nel foyer, quando due infermieri, scesi da un’ambulanza, hanno trasportato in platea (15 minuti prima dell’inizio) un personaggio vestito con un soprabito grigio (solo più tardi si scoprirà essere Arlecchino), ma il motivo di questa gag per nulla divertente, ignorata e non capita dalla quasi totalità degli spettatori resta un mistero. Così pure il prologo al Pulcinella, scritto dallo stesso regista/cantante, è sembrato, oltre che superfluo e prolisso, anche abbastanza volgare, come altre parti dello spettacolo. Dalla, in modo poco convincente, ambienta il balletto a New York in un'epoca che dovrebbe essere contemporanea, ma ricorda gli anni del boom economico. Pulcinella, interpretato da Alessandro Riga, viene trasportato nudo in mezzo a Wall Street, cominciando la sua avventura. La trama tradizionale del balletto viene stravolta e la coreografia di Luciano Cannito non aiuta, nonostante i bravi ballerini. Sul palco inusitatamente anche i cantanti (Stravinskij li voleva nella buca dell’orchestra), che compaiono in situazioni paradossali, con un lampadario acceso in testa (il Mezzosoprano Sabina Willeit) o con pupazzi di dimensioni umane (il Tenore Filippo Adami e il Basso Maurizio Lo Piccolo), artisti bravi, come dimostreranno anche nell’Arlecchino, ma il cui canto viene “nascosto” dalla coreografia del balletto in scena. Il Pulcinella finisce come è iniziato, in mutande (e non solo per metafora). Bravo il ballerino Alessandro Riga, giovanissimo, sicuramente un astro promettente della danza classica.
Durante l’intervallo il misterioso personaggio trasportato in platea da presunti infermieri vaga inquietamente per la sala, finchè viene catturato da un improvviso fascio di luce e, lasciato repentinamente l’impermeabile, rimane in mutande. Poiché la maschera nazional popolare ha un costume multicolore che la contraddistingue dalle altre, il nostro si carica di questa caratteristica “arlecchinesca” spruzzandosi vernice su gambe e torace, catapultandosi in una improbabile Bergamo sostituita da una casetta a due piani in stile cartoon, che ruota su se stessa. Arlecchino entra in scena da un tubo e procede per tutta l’opera in uno stile da barzelletta greve e pesante, ora tirando fuori la lingua, ora mostrando i suoi attributi sessuali ad Annunziata affacciata alla finestra. Ser Matteo lascia ciondolare il braccio per indicare la propria impotenza, mentre Leandro e Colombina mimano un ridicolo amplesso. Nel ruolo di Arlecchino Marco Alemanno è sopra le righe, ma ha il merito di essere provocatorio e agile come la maschera.
“Arlecchino oder Die Fenster” viene qui riproposto nella versione italiana di Vito Levi, essendo stato scritto da Busoni in tedesco. Proprio a Bologna questo capriccio teatrale vide la sua genesi nel 1912. Scrive infatti l’autore: “ieri sera di passaggio da Bologna, abbiamo visto uno spettacolo recitato da maschere italiane. L’Arlecchino era una figura di grande effetto”. Busoni si ispirò poi anche al rossiniano L’occasione fa il ladro, la cui rappresentazione vide a Roma al teatro delle marionette. L’Arlecchino, che rappresenta, come nella commedia dell’Arte, l’arguzia del popolo, è una lieve canzonatura della vita ed è, come dice l’autore “meno di una provocazione e più di uno scherzo”: un marito tradito, ser Matteo del Sarto (Maurizio Lo Piccolo), ignaro della sua sorte, segue una sua fissazione. Il medico Bomasto (Ugo Guagliardo) e l’abate Cospicuo (Massimiliano Gagliardo) vengono da lui, loro amico, onesti ciarlatani nella cura del corpo e dell’anima: ma la porta di un’osteria inghiotte le due figure, che continuano a discutere per non dovere agire. C’è la minaccia della guerra ed Arlecchino, travestito da ufficiale napoleonico (ma non eravamo in epoca contemporanea?) ne approfitta per far allontanare ser Matteo dalla moglie Annunziata (Francesca Di Modugno). Colombina (Sabina Willeit), moglie di Arlecchino, dopo aver ritrovato il marito, viene corteggiata da Leandro (Filippo Adami), qui rappresentato come un popolare cantante rock con tanto di chitarra elettrica al seguito. Arlecchino ingelosito sfida in duello il rivale che rimane apparentemente ucciso. Ritornano Colombina, il dottore e l’abate, che, vedendo il morto, lo caricano su una lettiga con due infermieri (nella versione di Busoni dovrebbe essere caricato su un ciuco, simbolo del disinteresse, dell’anonimato… un nuovo buon samaritano). Leandro rinviene e tutti se ne vanno. Anche Arlecchino se ne va con la moglie del sarto, che tornando a casa trova un biglietto della stessa che lo invita ad aspettarla; ser Matteo aspetta così invano il rientro della moglie. Ma qui il regista taglia completamente l’epilogo di Arlecchino, lo riscrive integralmente e, mettendosi (in realtà un suo sosia) nella casa del sarto, lo declama personalmente. Un messaggio conclusivo troppo vago, a cui segue un breve, sussurrato applauso, mentre il pubblico si accalca tempestivamente all’uscita.
Bravi tutti i cantanti, anche per l’eccellente disinvoltura scenica, modesta la direzione musicale di David Agler, che ha condotto la volenterosa orchestra del teatro bolognese mancando di respiro ed elasticità e coprendo a volte le voci dei cantanti.
Mirko Bertolini
Visto a Bologna, teatro Comunale, il 21 marzo 2007
Visto il
al
Comunale - Sala Bibiena
di Bologna
(BO)