Valerio Binasco motiva la sua scelta di riprendere Arlecchino servitore di due padroni, il testo goldoniano, icona della rivisitazione settecentesca della Commedia dell’Arte.
”A chi mi chiede: «Come mai ancora Arlecchino?» rispondo che i classici sono carichi di una forza inesauribile e l’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola. Goldoni è capace di una scrittura che è solo in apparenza di superficie; se vado nei dettagli, non solo del testo, ma soprattutto delle ragioni che spingono i personaggi a dire quelle cose e non altre, scopro una ricchezza di toni interiori che ben si adatta a essere interpretata con sensibilità contemporanea.”
Una scelta che mostra in maniera esplicita l’intenzione di rifuggire qualsiasi tentativo di imitazione strehleriana nel rivisitare un genere unico e insuperabile.
Piuttosto la novità della regia di Binasco sta nel suo linguaggio cinematografico - sua cifra caratterizzante – e ancor più nel richiamo di un certo tipo di umanità che ha il sapore di un neorealismo (per usare appunto un termine cinematografico) contemporaneo. Si tratta di una realtà che dalle tavole del palcoscenico raggiunge lo spettatore nella sua quotidianità, nella sua arcaicità che ha in sé la modernità ma non la contemporaneità.
Dalla Commedia dell’Arte alla comicità italiana
Le tradizionali maschere della Commedia dell’Arte lasciano spazio alla comicità e alla commedia all’italiana novecentesca. Agiscono in una scenografia che è un gioco di scatole e pannelli mobili, una scacchiera di stanze che delimitano luoghi interni ed esterni. Ingegnosa è una giostra costruita con degli scivoli su cui scorrono valige troppo pesanti che scorrono e s’inceppano come in un ingranaggio guasto, una catena di montaggio inceppata, e finiscono per cadere ripetutamente. Insomma, le maschere resistono con i loro caratteri, fotografano un mondo diviso tra buoni e cattivi, servi e padroni, codardi e valorosi.
La rilettura è assolutamente moderna perché rispecchia un’Italia in bianco e nero, figlia della guerra, paesana, che ride e piange proprio come l’Arlecchino interpretato dal bravo Natalino Balasso. La maschera veneziana conserva fieramente il suo dialetto, le sue espressioni e la sua semplicità ma abbandona il costume a rombi colorati; veste i panni del servo e porta la “maschera” di un uomo che ha fame e soffre le cinghiate dei suoi padroni che gli lasciano segni a rombi sulla schiena.
Arlecchino mette in scena la povertà, la miseria, la sua maschera da servo sciocco; attraverso il gioco delle parti e il concetto del doppio mostra la bellezza dell’equivoco, svela la presenza del sentimento anche nell’inganno. Lo stesso sentimento è presente anche nell’inganno di Beatrice (la bravissima Elisabetta Mazzullo) che è costretta a mentire per paura; e lo fa per nascondere il suo status sociale di donna, la sua debolezza, ma anche per rivendicare un torto e ritrovare un amore.
Il tema femminile e dell’ingiustizia sociale
Assolutamente predominante è il tema della condizione femminile, la sofferenza per un’emancipazione negata, l’impotenza di una donna che non può scegliere da sola. A meno che non decida di combattere e ingannare. Proprio come Arlecchino che, pur essendo un servo, è comunque un combattente. Egli combatte per la fame e lo fa con i mezzi di cui dispone: la risata e la bugia. Ma questa resta sempre una bugia che fa sorridere per la sua ingenuità, per il suo carattere popolare.
La commedia va a contrastare la drammaticità, la battuta interviene nei momenti giusti, proprio quando serve rompere quel groppo di commozione che sale alla gola nei momenti più crudi. La maschera dell’avaro Pantalone (Michele Di Mauro), nella sua brutalità, si scontra con la bontà d’animo e la delicatezza tutta femminile di Beatrice che non riesce “a comportarsi da vero uomo” quando si rifiuta di frustare il suo servo nonostante le sue disobbedienze. Ci si intenerisce di fronte alla corte impacciata che Arlecchino fa alla serva Smeraldina: è questa la prova che anche i servi possono innamorarsi in un ordine sociale tanto crudele e squilibrato.
E ancora ci si commuove nella scena d’amore tra Beatrice e Florindo (Gianmaria Martini), i due amanti che, dopo essersi creduti morti, si ritrovano con uno slancio e una passione assolutamente sconveniente e attuale, negata dai benpensanti borghesi e dalle affettate maniere dei salotti del tempo. È l’abbraccio di due guerrieri di ritorno da una guerra, quella per la giustizia sociale, quella contemporanea e quotidiana che, forse, combattiamo tutti nel nostro piccolo ogni giorno ma sempre con un sorriso.