Cosa può accadere se tre uomini, con le loro storie, le paranoie di una vita, gli sbagli e gli accidenti del quotidiano, un’amicizia che parte da lontano ma arriva ad un presente strascicato, imbastiscono un triangolo di incomprensioni, equivoci e intolleranze puerili? Può succedere che un’autrice come Yasmine Reza, acclamata sui palcoscenici di tutta Europa, ne faccia materia per una pièce teatrale ironica e graffiante, attenta ai tic e ai paradossi della modernità, ma condita a tratti di ingenuo disincanto, com’è giusto che sia quando è l’amicizia, ultimo baluardo dell’affettività in quest’alba da terzo millennio, a fornire terreno fertile alle nostre speculazioni. Con Art, scritto nel 1994, la Reza affonda gli artigli nel magma caotico dell’esistenza di Marc, Serge e Ivan, il primo ingegnere aereonautico che gioca a fare l’intellettuale radical chic, il secondo un dermatologo affermato che frequenta l’arte contemporanea come vetrina del proprio status sociale, il terzo, infine, semplice commesso di una cartoleria che, come si scoprirà in seguito, appartiene allo zio della sua futura moglie, anzi, più che futura, imminente, dato che Ivan trascorre gran parte del suo tempo in litigi furibondi che hanno come argomento le partecipazioni di nozze. Ivan è l’ex clown del gruppo, una vita trascorsa tra psicoanalisi e complessi edipici, la cui precarietà, però, è sempre servita da collante per la loro unione e da equilibrio per le tensioni di Marc e Serge, poli opposti e sempre pronti a fare scintille. Tutto nasce da un quadro bianco con linee bianche che Serge ha appena comprato ad un’asta per la cifra di duecentomila euro, un’enormità per Marc, che non trova di meglio che definire l’opera una vera merda, un affare, invece, per il novello proprietario che si sente orgoglioso intenditore di un’arte che altri, come Marc appunto, non sono in grado di percepire. La bellezza è invisibile agli occhi, dice la volpe al Piccolo Principe, e forse, per questo, tanto Marc che Ivan saranno costretti a trovare le posizioni e i punti luce più incredibili per provare a intravvedere qualcosa in quell’enorme tela bianca. Perfettamente in linea con l’idea drammaturgica la regia di Giampiero Solari che affida ad Alessandro Haber, Gigio Alberti, Alessio Boni, rispettivamente Ivan, Marc e Serge, gli spettacolari deliri di tre adulti bambini che si tormentano a vicenda per un quadro bianco, la cui valutazione si allargherà ben presto a tutti gli altri aspetti della loro vita privata: dai matrimoni più o meno falliti di Marc e Serge a quello schizofrenico che Ivan si prepara a celebrare, passando per i pro e contro della cucina lyonnaise fino all’irritante predilezione per termini à la page come decostruzionismo, che scivola improvvisamente dalla bocca di Serge. In un’atmosfera dominata dal bianco, nel comfort quasi anonimo di una casa che è casa di tutti e tre, uno scivolare di pareti mobili in primo piano ne segnala il cambiamento, l’intreccio si sviluppa prima con un gioco di coppie dall’andamento ciclico alla maniera del Girotondo schnitzleriano, Serge mostra il quadro a Marc, quest’ultimo riferisce il fatto a Ivan, Ivan decide di vedere con i propri occhi e si reca da Serge, finché i tre si ritrovano per passare una serata insieme e tutte le tensioni, sopite dalla dinamica della coppia che permette sempre di parlare male del terzo che non c’è, esplodono in un climax grottesco. Haber disegna un gustosissimo Ivan impacciato, sempre in cerca del consenso degli altri due, “a parte il buonismo perfetto sei una persona sana” gli dirà Marc in uno scoppio d’ira, una sorta di easy rider depresso e stanco che coltiva l’illusione di mettere ordine nella propria vita sposandosi e lavorando al banco di una cartolibreria; Alberti, invece, fa di Marc un fricchettone, ex sessantottino, armato della sua inesauribile dose di pillole omeopatiche, incapace di fare i conti con un’idea un po’ troppo possessiva di amicizia, sornione e aggressivo al tempo stesso; il Serge di Boni, infine, ha l’aria dell’uomo che si prende troppo sul serio, soprattutto da quando ha compreso la necessità di sottrarsi all’ascendente di Marc, trovando rifugio nell’ammirazione solipsistica di orrende opere spacciate per arte contemporanea. Eppure sarà proprio Serge, comprendendo che l’amicizia che li lega non può abdicare ad una tela da duecentomila euro, a fare il gesto risolutivo che consentirà ai tre di ritrovare una, seppur fragile, armonia: consegna a Marc un pennarello, uno dei tanti che Ivan ha con sé da quando lavora nella cartolibreria, lasciandogli la possibilità di imbrattare l’opera in bianco e rimettendo a lui, così, i termini della loro amicizia. E Marc? Cosa farà? Non lo diremo qui per non trasformare una recensione in uno spoiler, anche perché l’interrogativo della Reza resta fino alla fine: è la verità o un insieme di sane bugie a preservare i rapporti tra esseri umani? Una plauso alla traduzione di Alessandra Serra, vivace, diretta e a tratti funambolica, chapeau infine al disegno luci di grande efficacia, senza sbavature e soprattutto mai invadente.