La messa in scena di Aspettando Godot a quasi sessant’anni dal debutto contiene evidenti motivi di sfida e di verifica: si tratta infatti di un lavoro con un’aspettativa di senso ben sedimentata anche nello spettatore meno avvezzo alla pratica teatrale. La metafora annunciata dal titolo è talmente ribattuta nella cultura occidentale del secondo Novecento da esser divenuta proverbiale; cosicché resta difficile immaginare oggi una pura esecuzione letterale del testo, operazione che tradirebbe quel carattere enigmatico e “disturbante” con cui Godot esordì sulle scene nel 1953, e che ne fece immediatamente uno scandaloso “caso” culturale. Se da un lato il capolavoro beckettiano si presenta come opera aperta, che diserta la proposta tradizionale del fatto teatrale e consegna allo spettatore un ordito fluido di significanti – senza una storia, senza una morale, senza una chiave ermeneutica unitaria – dall’altro è pure chiaro che nell’immaginario contemporaneo Aspettando Godot configura il modello dell’attesa vana, del vuoto di significato che assedia ogni progettualità umana, della perpetua condizione di estraneità dell’uomo dal senso della propria esistenza; temi che chiedono, per restare degnamente in vita, un adeguamento di prospettiva rispetto al momento della scrittura del testo.
L’esecuzione curata dal Teatro Out Off con la regia di Lorenzo Loris tiene sapientemente conto di queste istanze e riesce perciò a preservare con intelligenza la vitalità della tragicommedia beckettiana, pur operando nello scrupoloso rispetto del testo (com’è noto Beckett corredava le sue drammaturgie di un apparato molto puntuale di indicazioni). Se dunque non è più possibile rinnovare lo sconcerto del pubblico parigino al Théâtre de Babylone, si può tuttavia restituire allo spettatore contemporaneo una parte significativa di quella poetica dell’alienazione umana che rappresenta la nota tematica più riconoscibile del testo. Questa messa in scena agisce perciò su alcune importanti sfumature, a partire dal contesto scenografico: l’aperta campagna originaria si sporca di allusioni alla periferia urbana, dal momento che l’azione si svolge su un’estesa piattaforma di cemento; mentre nelle fasi più immobili del testo un ipnotico andirivieni di ruspe viene proiettato sulla parete di fondo, un movimento che fin troppo apertamente allude ad un fare e disfare senza costrutto, e che tuttavia imprime un’idilliaca desolazione alla scena.
Il progetto di regia lavora con attenzione sull’ambigua dualità dei due protagonisti, pagliacci ignari e filosofi clochard, sostenuto da un’egregia esecuzione attoriale: precisione e ritmo muovono i cinque interpreti a rappresentare con efficacia il meccanismo esatto del nulla e il lento logoramento esistenziale dei suoi esemplari protagonisti. Superba la prova di Gigio Alberti, che di Vladimiro mette in risalto il vacuo carisma, e di Mario Sala, disperato ed illuso Estragone, ambedue bravissimi a rendere la drammatica polarità del testo sospeso fra i meccanismi del comico e l’imminenza del tragico. Ottima anche l’interpretazione di Giorgio Minneci, nel ruolo di un Pozzo isterico e sornione, le cui accelerazioni verbali dominano psicologicamente l’apatico Lucky di Alessandro Tedeschi, assoggettato dalla sua condizione mentale più che dalla violenza; a completare il cast il giovane Davide Giacometti, ben partecipe dell’energico andamento della scena. Platea quasi piena e applausi convinti dal pubblico.
Visto il
18-02-2010
al
Nuovo
di Napoli
(NA)