Lirica
ATTILA

L'Attila di Verdi ritorna nella Laguna veneta

L'Attila di Verdi ritorna nella Laguna veneta

Cosa aveva di così intrigante l'Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner, per destare l'interesse di Verdi? E' la domanda che si pone con sorpresa curiosità Julian Budden, quando nel ponderoso Le opere di Verdi inizia la disamina del secondo dei melodrammi composti per Venezia. Il musicologo inglese trova infatti quel popolare drammone storico pervaso da «una incredibile farragine teutonica», e non comprende come mai se ne fosse così tanto invaghito il compositore. Il quale, al contrario, nella lettera a Piave dell'aprile 1844 – lettera citatissima, nella quale gli impostava lo scenario dell'opera - trovava che «vi sono delle cose magnifiche e piene di effetti», che conteneva «tre caratteri stupendi», e che nondimeno «ci sarebbe d'inventare un quarto carattere d'effetto» che sarà poi quello di Foresto, assente in Werner. Ed infine raccomandava al mite collaboratore: «A me pare che si possa fare un bel lavoro, e se studierai seriamente farai il tuo più bel libretto. Ma bisogna studiare molto».
Insomma, a parte il fatto che il soggetto dell'Attila werneriano si inseriva appieno nel recupero medievalistico del primo Romanticismo, il nostro Verdi, avviato ormai verso la maturità del primo Macbeth e di Luisa Miller, vi intravedeva di sicuro la possibilità di replicare il fortunato schema del Nabucco. Là, l'esilio degli Ebrei sulle sponde dell'Eufrate; qui, un potente quadro del nostro primo Medioevo – l'invasione delle orde degli Unni, la fondazione della Serenissima da parte degli esuli di Aquileia – inserendovi personaggi dal carattere tagliente incorniciati da potenti momenti corali. Un soggetto epico e dall'impatto irresistibile, da portare però sulla scena come il teatro romantico allora esigeva: cioè con la massima attenzione ai dettagli visivi – di qui le tante raccomandazioni al Piave – ed alle sottolineature musicali. Anche se, alla fine, il risultato finale fu una partitura cosparsa di molte singole belle pagine, ma drammaturgicamente debole e discontinua.

Opera squisitamente “veneziana” per soggetto e commissione, l'Attila non è che sia stata comunque tra i titoli più rappresentati in Laguna. Anzi, dopo la sua apparizione nel 1846, ci volle più di un secolo perché vi facesse ritorno: ma, ironia della sorte, al Festival Internazionale di Musica Contemporanea del 1951, direttore Giulini. E quindi solo in forma di concerto, organizzato dalla RAI come altri nell'ambito del 50° della morte di Verdi. Un lungo periodo di oblio, d'altronde comune a quasi tutti i titoli verdiani giovanili.

Ripreso in seguito nel 1976, nel 1986-87, infine nel 2004, il nono dei melodrammi verdiani ora viene riproposto alla Fenice in una nuova versione che poggia sulla regia di Daniele Abbado, quella cioè già vista ad inizio d'anno fa al Comunale di Bologna.
In realtà, vien da chiedersi: quale regia? In quella che potrebbe essere l'idea dei fianchi d'un grande vascello troviamo sparsi piccoli enigmi – cosa rappresentano gli involucri appesi alle funi, le fronde rinsecchite recate in processione, o le statue di cartapesta, accovacciate e senza testa? - e certe cose che non vorremmo vedere, come i cori immobili e statuari, i cadaveri degli antenati avvolti nei sudari, oppure Attila appeso a delle funi prima d'essere trafitto da Odabella, come lui aveva fatto prima coi suoi prigionieri. Regia in definitiva ora oscura e farraginosa, quella di Abbado, ora un po' assente; e ad ogni modo dalla gestualità granitica, e con la macchia di non prestare attenzione ai bei dettagli naturalistici e descrittivi sparsi a piene mani nella partitura.

Per carità, non pretendiamo precise enunciazioni di rovine fumanti e di paludi caliginose; ma pure a quei momenti Verdi teneva tanto – vedi come gli riesce bene l' incantevole dissolversi delle tenebre sulle Lagune Adriatiche – mentre Abbado vira decisamente verso un taglio visivo freddo e distaccato, un po' da teatro “alla tedesca”. Quello più becero e noioso, si intende. C'è da dire che di primo acchito, l'impianto scenico unico di Gianni Carluccio sortisce il suo effetto (pur rievocando un certo famoso Vascello fantasma), e conquista al sollevarsi sullo sfondo delle grandi vele latine; ma nell'insieme appare ripetitivo, e sopra tutto incongruo al mutare dei contesti; e che i costumi suoi e di Daniela Cernigliaro, nell'intento di attualizzare la trama ai giorni nostri  – «si tratta di gente che può arrivare dalla Siria o dall'Afghanistan», precisa Abbado, forse per questo è anche lacera e insudiciata – suscitano l'impressione di indumenti pescati a caso nelle bancarelle dell'usato. Né infine si vede quanto sforzo possa aver fatto Simona Bucci, nell'impostare movimenti coreografici che in realtà muovono poco o nulla, masse corali comprese che restano sempre alquanto statiche.

Buon per noi che per questo titolo minore del catalogo verdiano, come nelle predette recite bolognesi dirette da Mariotti, anche il teatro veneziano abbia avuto a sua volta l'accortezza di radunare un cast magari non stellare, ma peraltro azzeccato in tutte le sue componenti. Perché senza l'indispensabile sostegno di voci adeguate melodrammi come questo, che si fondano solo canto e musica e non anche sulla tenuta scenica, non starebbero bene in piedi.

Attila è Roberto Tagliavini: voce molto calda e fascinosa, e dalle solide fondamenta; voce ben costruita e ben ammaestrata, sostenuta da un nobile e virile fraseggiare. In più, in scena il giovane basso parmense si impone con molta autorevolezza, rendendo sino in fondo i risvolti psicologici di un personaggio che di sentimenti ne deve esprimerne più d'uno: possanza guerriera, ira, sdegno, terrore ancestrale, amarissima disillusione. E che deve pure tener testa a quell'autentica virago che è Odabella, parente stretta di Abigaille: qui interpretata abbastanza efficacemente da una voce anch'essa emergente, quella di Vittoria Yeo. Dico abbastanza, perché se apprezzabile è la grana e la potenza di voce del soprano coreano, costante la ricerca di colori e di effetti, il fraseggio sufficientemente ricercato, indubbia la tempra drammatica, la colonna di fiato invece non è ancora del tutto pronta ad affrontare un ruolo così arduo. Ed in effetti il salto di due ottave, dal do acuto al si basso – questo l'impervio compito tosto richiesto all'eroina aquilense al suo ingresso – risulta incerto e di poco peso drammatico; e qualche difficoltà s'avverte nel poter giungere integra sino al fine. Altro coreano in via di affermazione è il superlativo Julian Kim, un baritono che si sta rivelando sempre più significativo e raffinato interprete del repertorio verdiano. Con voce possente ed espressiva oratoria – ma senza esagerare mai, si badi bene, sennò si cade nella retorica più roboante - sa sempre portare ad effetto nel suo Ezio quelle continue annotazioni di grandioso sparse a piene mani dal Maestro di Busseto. Il ruolo tenorile di Foresto tocca a Stefan Pop, il quale con emissione argentina, limpida e solida – generoso e pieno di baldanza lo squillo all'ottava superiore, ardente l'intensità dei suoni centrali - esprime debitamente tutte le pieghe di questo personaggio un po' ambiguo, stretto com'è tra slanci eroici e borghesissime pene di gelosia. Nelle parti di fianco due solisti di saldo mestiere, Matteo Denti (Leone) e Antonello Ceron (Uldino). Superlativa e godibilissima, dall'inizio alla fine, la prova del Coro veneziano preparato da Claudio Marino Moretti.

Resta da commentare la direzione; e qui piace sottolineare come Riccardo Frizza colga appieno l'indirizzo interpretativo e l'appropriato stile esecutivo, due fattori indispensabili per conferire compattezza e coerenza ad una partitura che, drammaturgicamente parlando, di coesione ne mostra poca. Sostiene con molta attenzione l'impegno dei cantanti, in primis; e poi ricerca la massima varietà di colori possibile, adotta tempi rapinosi ma non eccessivi, sceglie una paletta dinamica estesa e variata – come nel bel Preludio, dall'arco sonoro lussureggiante – e pretende giusta flessuosità alle singole sezioni strumentali. E l'Orchestra della Fenice lo segue in questo suo percorso assai diligentemente, e con la solita padronanza dei propri mezzi.

Sala affollatissima, pubblico festante e generoso di applausi per tutti gli interpreti. Un pubblico palesemente soddisfatto ed appagato, benché il “modesto” Attila non sia Rigoletto, non sia La traviata, non sia Il trovatore.

(Foto di Michele Crosera)
 

Visto il 15-12-2016
al La Fenice di Venezia (VE)