Modena, teatro Comunale, “Attila” di Giuseppe Verdi
IL TIRANNO CHE PER UN GIORNO HA CREDUTO ALL'AMORE
L'argomento che Verdi desiderava trattare deriva dalla tragedia di Zacharias Werner (“Attila, König der Hunnen”), composta nel 1808 e che il compositore aveva conosciuto per la descrizione che ne veniva fatta da Madame de Staël in “De l'Allemagne”. Werner, animato da una forte avversione nei confronti di Napoleone, a quel tempo dominatore dell'Europa, volle in un primo momento assumere la figura di Attila come simbolo della tirannide napoleonica; ma nel consultare i documenti storici, si rese conto che Attila fu un sovrano saggio e un guerriero leale, che diede leggi al suo popolo e lo amministrò con giustizia: di conseguenza la sua figura emerge nel dramma come immagine rovesciata di Napoleone e, al tempo stesso, come esaltazione del mito germanico in opposizione al corrotto mondo occidentale, a cui alla fine soccombe. Il libretto di Solera e Piave finisce col riflettere abbastanza fedelmente la tragedia di Werner, soprattutto nell'opposizione fra il “barbaro leale” Attila e il “romano corrotto” Ezio: per questo alcuni studiosi, come Marcello Conati, reputano che l'opera di Verdi non abbia un carattere risorgimentale, al contrario reputano si tratti del dramma di un sovrano, inesorabile sì, ma fiero e solitario nella sua lealtà, che resta vittima degli intrighi dei romani.
Dopo un iniziale successo, a partire dall'unità d'Italia Attila è stata sempre più relegata nelle sale secondarie, fino a scomparire negli ultimi decenni dell'Ottocento. Per la sua rinascita si deve attendere l'allestimento del Comunale di Firenze del 1962, poi Parma (1973) e via via altri, tra cui lo Sferisterio di Macerata alla fine degli anni Novanta.
Nella messa in scena al Comunale di Modena (una vecchia produzione, azzeccata e piacevole) si sono visti tre Attila. Il primo è quello appena descritto sopra e presente nel libretto, un Attila inesorabile, leale e solitario. Il secondo è quello che è uscito dalla bacchetta del direttore Will Humburg, che si è sbracciato a non finire ed ha sudato le classiche sette camicie per produrre con l'orchestra della Fondazione Arturo Toscanini un Attila roboante e risorgimentale. Il terzo è quello tradotto in immagini da Pier Luigi Pizzi, un Attila uomo, intimo e debole, di fronte alla Odabella vendicatrice che sfodera in continuazione la spada fin dall'overture, quando si apre il sipario e il regista immagina la scena dello sgozzamento del “flagello di Dio” ad opera della ragazza, scena con cui invero si chiude l'opera (una specie di sogno o di desiderio profondo).
La scena, un acciottolato di pietra fra grigie rovine, evocative della romana decadenza e dei campi di battaglia, è scarna e cinerea e viene illuminata da squarci di colore (l'arancio e il celeste delle luci di Vincenzo Raponi, ma anche l'oro dei ricchi e sontuosi costumi di Pier Luigi Pizzi, l’unico elemento propriamente scenografico di questa produzione).
La regia essenziale di Pizzi restituisce comunque la giusta atmosfera del giovane Verdi in cui, in una dimensione epico-storica, inizia a emergere lo scavo psicologico dei personaggi. Attila è la figura che più si distingue, non il “barbaro flagello” quanto il re assorto e prossimo alla fine, antesignano di altri eroi verdiani dilaniati e soli: Attila è fatto della medesima tinta dei primi protagonisti verdiani da Nabucco a Macbeth.
Michele Pertusi, nel ruolo del titolo, privilegia l’aspetto umano rispetto a quello eroico, delineando un personaggio nobile e psicologicamente credibile. La voce è morbida, dall’emissione ben controllata e trova i giusti accenti con gusto e ottimo fraseggio. E suona vera la frase “e tu pure Odabella” a riassumere la disillusione del tiranno ingannato che per un giorno ha creduto al sentimento.
Dimitra Theodossiou-Odabella svetta in acuti di acciaio come la spada che costantemente brandeggia, talvolta risultano eccessivi, ma sempre sotto controllo e riesce ad alternare impennate veementi a momenti di raccoglimento elegiaco, in cui sfoggia bellissime e delicate mezzevoci.
Walter Fraccaro è un Foresto scattante e fiero, vocalmente corretto anche se privo di grande varietà di colori ed espressione. Deludente Roberto Servile nella parte di Ezio, la linea vocale non è sufficientemente morbida e la voce appare talvolta sfuocata, fino a suoni forzati e slabbrati. E dire che il suo sarebbe il ruolo più interessante.. Con loro l'Uldino di Giovanni Maini e il Leone di Alberto Rota, quest'ultimo protagonista di una efficace immagine in stile Pizzi, quando appare ad Attila in una struttura a mezzaluna sullo sfondo, tra due angeli sghembi.
L’orchestra diretta da Will Humburg, dopo un avvio un po’ approssimativo, trova il giusto piglio drammatico e verdiano vigore, forse anche troppo. Il direttore inoltre accompagna con grande cura il canto, perfettamente assecondato dagli strumenti solisti. Buona la prestazione del coro del teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati
Visto a Modena, teatro Comunale, il 20 aprile 2007
FRANCESCO RAPACCIONI e ILARIA BELLINI
Visto il
al
Arena Sferisterio
di Macerata
(MC)