di Cechov in cui un uomo maltrattato dalla moglie tiene un discorso sui
danni del tabacco, e finisce per parlare di quanto odi la sua vita. È
un autentico clown, una completa nullità, un timido perdente, ma con una
grande rabbia dentro
Morris Panych
Scritta e andata in scena nel 1995 col titolo di Vigil, questa commedia nera del canadese Morris Panych dopo il successo in patria è stata portata al festival di Edimburgo nel 2002 col titolo Auntie and Me (t.l. Zia e me), e con questo titolo approda in Italia in prima assoluta, nel 2009, per la traduzione Valentina Rapetti, la regia di Fortunato Cerlino, interpretata da Alessandro Benvenuti e Barbara Valmorin.
Auntie e Me è un monologo dissimulato visto che, pur prevedendo la presenza in scena anche del personaggio femminile, le fa dire tre battute (di numero) in tutto l'arco della storia, mentre il personaggio maschile, animato da una sovreccitazione verbosa, parla per due.
Il pretesto narrativo della commedia è semplice. Dopo aver ricevuto un laconico biglietto da sua zia Grace, nel quale c'è scritto "Sto morendo vieni presto" Kemp, scapolo di mezza età, raggiunge la donna convinto di dover assistere una moribonda.
Ma la zia non muore, le ore diventano giorni, i giorni settimane e le settimane mesi. Così Zia e nipote si fronteggiano. La donna anziana vive praticamente a letto e sembra incuriosita dalla presenza del nipote come quella di un estraneo che non conosce, nipote che non le dà modo di parlare anticipando ogni sua risposta e interpretando i suoi silenzi.
Nei monologhi di Kemp i piani per un funerale commovente, con tanto di musica adatta, la lettura di libri su come portare il lutto, le richieste di firmare testamenti nei quali è l'unico erede, e le cortesi ma pressanti sollecitazioni a morire presto, con l'ausilio di qualche aiuto violento (bastonate in testa, corrente elettrica e veleno nel cibo) si alternano ai racconti della sua vita alla zia. Dai ricordi di infanzia dell'unica volta che vide Grace che venne a far visita a casa, alla morte per suicidio del padre, alla morte della madre che sin da piccolo lo vestiva e trattava come fosse una bambina, all'omosessualità mai consumata per l'orrore che Kemp ha del contatto fisico, figuriamoci di quello sessuale, il pubblico comincia a riconsiderare anche l'eccitazione per il funerale e la morte della zia attesa con impazienza, intuendo che non tradiscono nel nipote una mente cinica e calcolatrice ma l'eccitazione naif di un uomo che non ha mai vissuto e che trova anche nel lutto un'occasione di vita.
La presenza di Kemp ridà colore alla vita della vecchia zia, che sembra rifiorire giorno dopo giorno, finché si azzarda ad uscire dal letto e dalla casa vestita di tutto punto, letto nel quale è ricacciata dal nipote che non si rassegna a non vederla morire.
La commedia felicissima di invenzioni comiche continue e di elegante ironia da umorismo nero punteggiata dalle pause ottenute con il buio che separano una scena dall'altra, alcune delle quali brevissime altre di più ampio respiro, trasla man mano che dipana la sua storia nel confronto tra due persone sole la cui esistenza non è stata modellata da alcuna vita sociale, nel passato di Kemp come nel presente di zia Gracie, che, in un anno di vita insieme, non riceve mai visita alcuna.
Le risate dell'inizio lasciano così lentamente spazio alla mestizia, fino al colpo di scena finale, che non riveliamo, dopo il quale Kemp capisce (la zia lo aveva già capito da un pezzo), che al di lè dei ruoli familiari, sociali, sentimentali e d'orientamento sessuale, quel che davvero conta nell'esistenza delle persone è la presenza di un altro(a) col(la) quale interagire.
E il finale della commedia lo ribadisce nella maniera più intensa e commovente possibile.
Dispiace solo che Panych cada nell'errore di confondere l'orientamento sessuale (l'omosessualità di Kemp) con l'identità di genere e il travestitismo (sic!). Kemp si descrive come omosessuale ma poi racconta di essersi vestito da donna (portava il reggiseno della madre) e di essersi sentito da piccolo più bambina che bambino.
Un fraintendimento giudicante e discriminatorio ingiustificabile anche nel 1995 che si addice di più all'angusto orizzonte degli anni 50.
Piccole, continue felici intuizioni drammaturgiche, una torcia elettrica usata per spostarsi di notte nel buio della stanza da letto, dove zia e nipote si spiano l'un l'altro approfittando del sonno che li coglie separatamente; la camera da letto nella quale si svolge tutta l'azione suggerita in un ambiente privo di pareti dalla sola presenza del letto di una sedia e di un armadio, danno alla commedia un'aura metafisica, e pur rimanendo ancorata a un realismo che non viene mai meno (tutto torna ed è plausibile anche il colpo di scena finale) trasfigura in una universalità atemporale nella quale la statura esistenziale dei due personaggi si staglia in tutta la solitudine delle loro vite. Nonostante la scarsità di battute del suo personaggio Barbara Valmorin riesce a parlare col corpo, le espressioni del viso, i gesti, il comportamento, costituendo un contraltare perfetto per la verbosità di Kemp che Benveunti restituisce con grande spontaneità senza farne una macchietta.
Si ride, molto, durante la visione, ma usciti dal teatro si fronteggia un sotterraneo sentimento di commozione che accompagna a casa appagati dopo tanto ridere e con tanto ancora cui pensare dello spettacolo appena visto e, anche, un po' delle proprie vite.