Andrea Castelli e Francesca Porrini regalano una grande prova d’attore. Uno spettacolo delicato e potente che affronta ferite ancora aperte del nostro recente passato.
Avevo un bel pallone rosso è il titolo di una filastrocca ritrovata su un quaderno appartenuto a Margherita Cagol quando era bambina: uno dei tanti documenti che si intersecano alla solida drammaturgia di Angela Demattè che, nell’omonimo spettacolo, racconta la vita della compagna di Renato Curcio e cofondatrice delle Brigate Rosse dall’infanzia alla morte, avvenuta nel 1975 durante uno scontro a fuoco con la polizia.
Da Margherita a Mara
La trasformazione dalla giovane studentessa modello Margherita alla Brigatista Mara Cagol è vista attraverso l’ottica del dramma familiare che filtra quello politico e ideologico. Filo rosso è il rapporto con il padre, uomo di provincia, religioso, di solidi principi, che aspirerebbe per lei ad una vita di “letizia”, termine desueto ma che ne riassume perfettamente la filosofia e arriva diretto al cuore, l’unica volta in cui viene pronunciato nel corso dello spettacolo.
La voglia di riformare a qualunque costo la società che in quel periodo, a cavallo tra gli anni ‘60 e i ’70, aveva contagiato molti giovani fino a spingerli a compiere azioni di violenza estrema, si confronta e si scontra con la visione semplice, piccolo borghese del genitore che, nonostante l’accentuarsi della distanza con la figlia, e l’incapacità di comprenderne le ragioni, cercherà di restarle sempre accanto.
Ai fini dell’evoluzione del rapporto è fondamentale l’aspetto linguistico. La Demattè sceglie di far parlare i due protagonisti in dialetto veneto trentino, a sottolineare la dimensione di intimità familiare, soprattutto nella prima parte. L’italiano è riservato ai telegiornali, ai dispacci delle Brigate Rosse, ai vari documenti d’epoca che fanno da corollario alla storia. E l’italiano è anche la lingua che parlerà Mara, quando, dopo il trasferimento da Trento a Milano, avrà cessato di essere Margherita, marcando definitivamente il distacco con il suo passato e con il padre che, invece, non smetterà mai di esprimersi nel suo dialetto.
Regia attenta e misurata, con due grandi prove d’attore
Questo testo, vincitore del premio Riccione 2009, è stato riproposto in un nuovo allestimento prodotto dal Centro Teatrale Bresciano in collaborazione con LuganoInScena e Teatro Piemonte Europa. Carmelo Rifici, che ne firma la regia, sceglie di mantenersi estraneo a qualsiasi forma di giudizio, assumendo il ruolo di un narratore esterno, che, pur non prendendo posizione, coglie con grande sensibilità la profonda umanità dei protagonisti. Attenta, curata, dai toni intimisti, la regia ambienta la vicenda nella semplice ma efficace scenografia firmata da Paolo di Benedetto, che rappresenta sia la casa di Trento che l’appartamento di Milano. Struggente la scena finale che ricalca perfettamente quella iniziale in una sorta di onirica ciclicità.
Andrea Castelli e Francesca Porrini regalano una grande prova d’attore, ricca di sfumature, mai forzata: lui nel suo amore paterno umanissimo e senza condizioni, lei nel progressivo estraniarsi, vittima dell’ideologia.
Uno spettacolo delicato e potente allo stesso tempo che affronta ferite ancora aperte del nostro recente passato con grande efficacia.