Lirica
BEATRICE DI TENDA

Beatrice sotto la torre

Beatrice sotto la torre

Prima, una piccola digressione storica. Il matrimonio del ventenne Filippo Maria Visconti con Beatrice Lescaris contessa di Tenda, avvenuto nel 1412, rispondeva esclusivamente a motivi d'interesse. Di vent'anni più vecchia di lui, Beatrice era infatti erede dei ragguardevoli beni accumulati dal suo defunto marito Facino Cane, il famoso condottiero, e in particolare del dominio di Alessandria, Novara e Piacenza: nuovi importanti possessi che rafforzavano il traballante trono dei Visconti. Filippo aveva però già un'amante, Agnese del Maino, con la quale ebbe una relazione lunghissima e dalla quale nel 1424 nacque la figlia Bianca Maria; così sei anni dopo decise di liberarsi della scomoda moglie accusandola di avere una tresca amorosa con Michele Orombello, colto cavaliere di Ventimiglia. Costretti a confessare sotto tortura un tradimento probabilmente mai avvenuto, Beatrice e Michele furono decapitati nel castello di Binasco nel 1418. I due sventurati assunsero nei secoli a venire fama di innocenti vittime di una bieca ferocia e nel 1825 - in pieno clima romantico - ispirarono una tragedia di Carlo Tedaldi-Flores (1739-1829) intitolata Beatrice di Tenda: un lavoro destinato ad una notevole diffusione in tutta Italia, e che inserì il nome di Beatrice nell'immaginario popolare. Il lavoro di Tedaldi-Flores ispirò a sua volta un ballo di Antonio Monticini ("azione mimico-istorica" recita la locandina, senza indicarne il compositore) che nel 1832 inframezzò alla Scala le ben 39 recite di Caritea regina di Spagna di Saverio Mercadante. Il ballo richiamò l'attenzione del soprano Giuditta Pasta, chiamata qualche tempo dopo ad interpretare l'opera di apertura della stagione del Carnevale del 1833 alla Fenice, la cui stesura era stata commissionata a Bellini. E qui il cerchio si chiude. La Pasta convinse - non si sa come - il compositore ad adottare quel soggetto intrigante e Felice Romani, il quale già da mesi stava lavorando per lui intorno ad una Cristina di Svezia (plot tratto da Dumas padre) dovette quindi concentrarsi ora obtorto collo su di un nuovo soggetto. Compito invero pesante, dato che nel medesimo tempo era tenuto a soddisfare le richieste di Donizetti, Mercadante, Coccia, Majocchi, e forse di qualchedun'altro.

Il libretto di Beatrice di Tenda consegnato da Romani a Bellini non si pone di certo tra i migliori esiti del poeta genovese: l'impianto generale appare poco originale (tutta la scena finale del secondo atto, per dire, si richiama volutamente alla Maria Stuarda di Schiller), i versi sono sovente deboli, i personaggi non tutti ben delineati: a fronte di una protagonista tratteggiata con la buona maestria, le sagome di Agnese e Orombello sono pallide larve, mentre Filippo sta a mezzo, senza essere né propriamente severo, né autenticamente feroce. Anche Bellini in qualche modo tradisce le nostre aspettative: se le due 'scene madri' di Beatrice, classica figura angelica tradita da una sorte avversa e terribile (Ma la sola, ohimè, son io al I atto e Ah, se un'urna a me è concessa in chiusura d'opera), sono momenti altissimi nei quali il catanese trova melodie stupende e sognanti, destinate ad una tessitura astrale ed astratta allo stesso tempo, il resto dei numeri musicali appare non sempre felice, e l'insieme della partitura priva della coerenza stilistica di Sonnambula e Norma. Quella uniformità di linguaggio musicale felicemente sintetizzata da Giampiero Tintori, rispettivamente, con i termini di 'aerea limpidezza' e 'selvosa tragicità'. Insomma, a farla breve il Cigno di Catania qui finisce per poggiarsi sovente nella più consueta prassi teatrale del tempo, con recitativi poco incisivi e deboli declamati, abbellimenti spesso esornativi, cori convenzionali, tanta facile retorica.

Tutto insomma ruota intorno alla figura di Beatrice, e perché l'opera possa reggersi deve soccorrere un'interprete adeguata, sia scenicamente - in quanto attrice convincente e sensibile - sia vocalmente, sapendo rispettare e rendere gli abbellimenti e le infinite mezze tinte della linea vocale. Nella prima ripresa moderna del lavoro (La Scala 1961) brillò la metafisica astralità e lo strumento purissimo della Sutherland, testimoniati dalla registrazione Decca di qualche anno dopo. Ad essa fece sponda la successiva versione della Gencer (Venezia 1964) che invece imboccò la via di una drammaticità interiore e di una recitazione più naturalistica. Tocca ora a Dimitra Theodossiou dire la sua: in queste recite catanesi va a ritagliarsi salomonicamente una soluzione di mezzo, cercando di essere buona interprete - e ci riesce appieno, senza enfasi declamatoria - e sapendo sfruttare al meglio quel meraviglioso suo registro centrale, corposo e setoso alla stesso tempo, e capace quanto pochi di sottili sfumature. Pazienza se qualche volta sfugge qualche asperità nelle salite al registro acuto, difettuccio di sempre: qui le occasioni sono poche, e il personaggio acquista una forte rilevanza drammatica. La sua rivale, Agnese del Maino, era nelle corde del mezzosoprano siciliano José Maria Lo Monaco, voce non imponente in struttura ma nondimeno carica di seduzione, e senza dubbio appropriata stilisticamente; solo un po' debole, a tratti, quanto a temperamento. L'Orombello di Alejandro Roy portava con sé un che di metallico che infastidiva, malgrado l'autorevolezza e la potenza d'emissione; ed anche il personaggio scaturiva alquanto generico nella riuscita generale. Il baritono romeno Michele Kalmandi destava molte perplessità con il suo Filippo, dai tratti quasi veristi, troppo vociferante e feroce, la cui povertà di fraseggio non faceva onore al riguardo riservato da Bellini al momento di scrivere una scena impegnativa come Rimorso in lei?...No si resista.
Nelle recite catanesi al cast principale si alternava quello formato da Rachele Stanisci, Nidia Palacios, Giorgio Casciarri e Luca Grassi.

Sul podio dell'Orchestra del Teatro Massimo presiedeva Antonio Pirolli, impostando una direzione coerente e di adeguata professionalità: tempi sempre adeguati, buon respiro, giusta attenzione ai dettagli strumentali. Positivi gli interventi del coro guidato da Tiziana Carlini.

Nuovissimo l'allestimento scenico immaginato da Henning Brockaus: atmosfere volutamente oniriche, grigio ovunque salvo che nelle luminose apparizioni di Beatrice. Una specie di opprimente torre scura divora dall'alto, oppure discopre levandosi i personaggi; frequenti interventi coreografici e video proiezioni dai disegni astratti hanno il dichiarato intento di palesare ed amplificare i sentimenti dei protagonisti. Un po' macchinoso nell'insieme, ma almeno efficace. Regia, scene e luci dello stesso Brockaus, assistito da Giancarlo Colis per le scene ed i costumi di taglio tra moderno ed astratto, e da Emma Scialfa per le coreografie.

Visto il
al Massimo Bellini di Catania (CT)