Opera fra le meno conosciute di Donizetti, benché senz'altro valida, equilibrata e ben costruita com'è - superando indenne le secche del non eccelso libretto di Salvadore Cammarano - il Belisario tornò alla luce nel 1970, dopo lungo, perdurante oblio.
Al Teatro La Fenice, per inciso, proprio la sala dove venne battezzata nel febbraio 1836, e diretta da un altro grande bergamasco, Gianandrea Gavazzeni, con una lettura encomiabile. E nella stessa veste di lì a poco approdò nella città orobica, però con la smorta direzione di Adolfo Camozzo, un'orchestra assai modesta, un coro allo sbando. Lo testimonia la registrazione audio pubblicata da Arkadia. In entrambi i casi, però, il cast era il medesimo: Renato Bruson, Nicola Zaccaria, Leyla Gencer, Umberto Grilli, Mirna Pecile.
Meglio oggi che allora
Tempi passati. Protagonista a parte (Bruson era allora il miglior baritono belcantista possibile), quella esecuzione zoppica alquanto. Meglio assai questa ripresentazione in forma di concerto proposta da Donizetti Opera, secondo titolo del cartellone 2020 nel rimodernato Teatro Donizetti e trasmesso in streaming. Esecuzione dai tanti pregi, non ultimo evitarci la distrazione d'un scriteriato regietheater come quello offertoci ieri da Marino Faliero, di modo che la nostra attenzione si focalizza interamente sul discorso musicale.
Là dove incontriamo una pagina, cioè il dolente duetto fra l'accecato Belisario e la figlia Irene, che riteniamo una delle vette della drammaturgia donizettiana; nonché un vigoroso prototipo che Verdi doveva aver ben presente quando si trattò di affrontare certi confronti dialoghi padre/figlia, come in Luisa Miller, come in Rigoletto.
Intanto, la direzione di Riccardo Frizza non poteva, a nostro parere, essere migliore: scrupolosa nel rispetto della partitura (proposta nella recentissima edizione critica di Ottavio Sbargia), oltre che vigorosa, scolpita e ricca di contrasti, incline ad una fluente resa discorsiva; e pronta a sostenere con flessibile minuziosità il lavoro dei cantanti. Buon per noi che Dynamic l'abbia registrata in vista di successiva diffusione. Si comporta egregiamente poi la solerte Orchestra Donizetti Opera, e lavorano bene pure i componenti del Coro, organizzato con grande attenzione da Fabio Tartari.
Ma che belle voci...
Quanto al cast, ci pare decisamente ben congegnato. Roberto Frontali è un Belisario assolutamente superbo, poiché ne centra in pieno tutta la nobile fierezza, con voce bronzea, pregevole e generosa; l'emissione si mostra sempre ben sostenuta, la linea di canto sicura e compatta, ed accuratissimo il fraseggiare. Il personaggio fiero del condottiero bizantino trova sempre l'esatto risalto: e crediamo che non si potrebbe pensare un “Ah! Se potessi piangere!” più nobile, doloroso e coinvolgente, di dolentissima umanità, di questo offertoci dal baritono romano.
Anche Carmela Remigio è un'Antonina spettacolare: il personaggio – nevrotico e vendicativo, e in verità pure antipatico – è reso con cupa alterigia, rabbia rovente, accenti drammatici, ed abilmente dipanato in un travolgente arco drammatico, che culmina con una resa impressionante dell'aria del perdono “Egli è spento, e del perdono” che chiude l'opera. La tenera Irene tocca ad Annalisa Stroppa, che ne fa un bell'esempio di accurate sfumature, bei rivolti espressivi, fraseggio finemente articolato.
Il basso Simon Lim rende un eloquente Giustinano, senza mai strafare; Celso Albelo supporta bene la parte alquanto impegnativa di Alessi/Alamiro (pure nella svettante, impetuosa cabaletta “Trema Bisanzio” che tanto ci ricorda il Verdi giovanile), donandole la bellezza del suo caldo e limpido timbro tenorile. Ben coordinate le parti di contorno – termine che non vuol essere riduttivo – che vedono l'Eudora di Anaïs Mejías, l'Eutropio di Klodjan Kacani, l'Eusebio di Stefano Gentili, l'Ottario di Matteo Castrignano, il centurione di Piermarco Viñas Mazzoleni.