Lo spazio scenico è completamente vuoto e buio, si sente solo il suono delle onde, che accompagnano l’entrata dell’attore avvolto in un lenzuolo bianco. Delle luci blu lo illuminano tenuemente e creano dei chiaroscuri con le pieghe del lenzuolo, come una madonna sacra in una cattedrale. Leonardo Capuano è immagine iconica, sacra, che svetta al centro del palco, pronto a raccontare la storia di una disumanità perpetrata da troppo tempo ormai e che si ignora o non si racconta per il bene di pochi.
Il viaggio di Bilal
La storia raccontata è quella di Bilal e del suo viaggio dall’Africa all’Europa, passando per il Mediterraneo. Più precisamente il viaggio ha inizio a Dakar, capitale del Senegal, e termina a Lampedusa; in mezzo il Mali, il Sahara, il deserto del Ténéré in Niger, la Libia, la traversata del mare. Il testo di partenza è Bilal: viaggiare lavorare morire da clandestini del reporter de L’Espresso Fabrizio Gatti, che si è finto Bilal e ha affrontato questo viaggio in prima persona, per raccontarne gli orrori e separare definitivamente la dimensione del “noi” da quella del “loro”.
Raccontare con onestà
La regia di Annalisa Bianco restituisce questa inchiesta sul palco in maniera sensibile, ma mai patetica. Capuano interpreta non solo il ruolo di Bilal, ma anche di tutto il corollario di persone che incontra: poliziotti violenti, clandestini come lui, autisti di camion e di taxi, ragazzi spaventati. Il senso della morte e della paura aleggia costantemente sulla testa di Bilal, come una spada di Damocle, e i suoi racconti si fanno talvolta vorticosi perché teme che la fine possa raggiungerlo e lasciarlo con la frase a metà. Bilal ha bisogno di raccontare la sua storia per mettere luce su questa questione, spesso mai approfondita o mistificata dai canali di informazione, manipolati da politiche corrotte e egoiste.
L'occhio disumano
Dai suoi racconti emergono sì la paura, ma soprattutto la disumanità del viaggio: la violenza gratuita a cui sono sottoposti i viaggiatori, l’indifferenza davanti alle grida di dolore e davanti alla morte, la totale disintegrazione della dignità umana. Ma la vera disumanità, sembra suggerire lo spettacolo, si trova nell’indifferenza dell’occhio di chi guarda.