Lirica
BILLY BUDD

Il naufragar dell'anima non è dolce in questo mare

Il naufragar dell'anima non è dolce in questo mare

Billy Budd, composta da Benjamin Britten nel 1951 dopo il grande successo di Peter Grimes, è tratta dal l’omonimo romanzo di Melville e narra, in un sistema di antitesi natura/civiltà, innocenza/malvagità, coscienza individuale/ragion di stato, la vicenda di un marinaio imbarcato su di un vascello da guerra inglese durante il conflitto contro la Francia alla fine del ‘700. Nell’opera la storia, anziché essere raccontata da un narratore esterno, costituisce una sorta di lungo flashback incorniciato da un prologo e un epilogo affidati a Vere, il Capitano della nave, in una tormentata riflessione/confessione su etica e giustizia. Diversamente da Peter Grimes, caratterizzato da numerosi interludi marini, il mare è qui un protagonista “muto” e accentua l’isolamento degli uomini destinati al fallimento (che sia la guerra o una condanna a morte ingiusta) in un clima di forte tensione e prevaricazione.

Billy Budd  è una delle pietre miliari del repertorio operistico del Novecento ed è un’opera complessa, la cui riuscita richiede grande cura scenica e musicale. A Genova l’avevamo apprezzata nel 2005, nell’ottimo spettacolo di Willy Decker con il  Claggart di lusso di Samuel Ramey, ma il presente allestimento, ideato una decina d’anni fa da Davide Livermore per il Regio di Torino, ha una forza e un’intensità tali che lo rendono  addirittura superiore: oltre a essere una delle regie più riuscite di Livermore questo può essere considerato un allestimento di riferimento nella moderna storiografia dell’opera. L’intento del regista è creare uno spettacolo “senza scene e senza costumi” sfruttando in modo coerente e integrato il movimento delle strutture di palcoscenico, delle luci, dei singoli e delle masse e la produzione sembra essere stata creata appositamente per il Carlo Felice di cui esalta i grandi spazi e le potenzialità del palcoscenico.
La scena di Tiziano Santi vede una serie di ponti mobili che tagliano in orizzontale  la scena e che ricreano gli spazi di coperta della nave da guerra bordati da parapetti in ferro. I ponti si alzano e si abbassano in un ondeggiare che crea un effetto straniante nello spettatore che si sente in balìa delle onde in un navigare infinito, svelando sotto i ponti le cabine e gli anfratti della nave collegati ai ponti da scalette di ferro. Il palcoscenico del Carlo Felice, privo di quinte, si dilata così all’infinito, in un vuoto metafisico che situa la storia d’ingiustizia fuori dal tempo e dallo spazio. La vicenda, ambientata nell’anno 1797, è trasposta in epoca moderna (forse agli anni ’50, quando fu creata l’opera), ma più che la datazione interessa sottolineare l’aspetto universale di un dramma interiore inserito in un contesto ostile e violento. Bastano pochi tocchi: i manganelli nelle mani degli ufficiali, Claggart che scende le scale al contrario o che stringe tra le mani il fazzoletto rosso strappato a Billy  in un misto di sadismo e lussuria (evidente richiamo a Jago).
Le luci di Andrea Anfossi realizzate da Luciano Novelli, oltre a variare il blu profondo dello sfondo con arte “wilsoniana”, mettono in evidenza le braccia candide dei marinai e sembrano scolpire nell’aria i loro movimenti: l’atto di tirare le funi o alzare le braccia al cielo con una fisicità corale e potente. Billy Budd appare come un agnello sacrificale che, vestito di bianco, si oppone alla massa di marinai in maglietta nera per poi scatenare erotiche pulsioni sdraiato sull’amaca col petto nudo, candido e imberbe. Di grande forza emotiva l’immagine con cui si chiude l’opera con il Capitano Vere immobile, sollevato verso l’alto da un albero di trinchetto, mentre Billy Budd resta impiccato nel vuoto in un tempo che ci sembra infinito e che amplifica a dismisura il senso di solitudine e fallimento di un’anima.

La produzione si avvale di un ottimo cast sia nei tre ruoli principali che nei numerosi ruoli minori. Phillip Addis è un Billy Budd  giovane e bello come deve essere, dalla fisicità acerba e asciutta e una  comunicativa immediata che trasuda ingenuità mista a idealismo; la voce brunita suona sicura e virile e si apprezza, oltre al controllo della linea, una dizione nitida che dà rilievo a ogni singola inflessione. Il ruolo di Captain Vere richiede, oltre a doti di articolazione e fraseggio, incisività e scarto drammatico: Alan Oke ha voce tenorile chiara adatta alla parte (il ruolo fu creato da Britten per Peter Pears e per le sue caratteristiche vocali) e convince soprattutto nelle pagine introspettive e analitiche, mentre in quelle più spinte si avvertono dei cali d’intonazione, anche se tali incertezze contribuiscono alla lacerazione di un personaggio in preda a forti dicotomie psicologiche. Decisamente nero il Claggart di Graeme Broaadbent per  la voce profonda di granitica durezza e la torva presenza da malvagio da film espressionista: il personaggio è maligno e brutale, più Hagen che Jago. Bene il Dansker partecipe dalla voce sonora e profonda di John Paul Huckle e il Redburn sicuro di Christopher Robertson. Ci è piaciuto anche il Novizio di Alessandro Fantoni. Matteo Macchioni è Squeak. Bravi anche tutti gli altri: Mansoo Kim (Flint), Simon Lim (Ratcliffe), Daniele Piscopo (Donald), Claudio Ottino (il Nostromo). Concludono adeguatamente il cast Roberto Maietta (Primo Ufficiale),Davide Mura (Secondo Ufficiale), Naoyuki Okada (Gabbiere di maestra),Ricardo Crampton (amico del Novizio).

Impetuosa e ricca di pathos la direzione di Andrea Battistoni che trova i suoi momenti migliori nelle folate della battaglia e negli interludi: una lettura decisamente drammatica e coinvolgente, anche se certa ipertrofia sonora va a scapito della chiarezza di disegno tipicamente britteniana con qualche imprecisione e “forte” di troppo. Grande successo per i cori, protagonisti per compattezza vocale e impatto scenico, ma anche per essere riusciti a dar voce a stili diversi. Il Coro del Carlo Felice, diretto come d’abitudine da Pablo Assante, è stato potenziato dal Coro del Teatro San Carlos di Lisbona (preparato da Giovani Andreoli) in un riuscito amalgama che ha scatenato l’entusiasmo  del pubblico. Un plauso anche al Coro di voci bianche diretto da Gino Tanasini.

Meritatissimo successo di pubblico e critica per uno spettacolo che indica quale sia la via da percorrere per il rilancio del teatro genovese.

Visto il
al Carlo Felice di Genova (GE)