La difficoltà di sc…


	La difficoltà di sc…

La difficoltà di scrivere su Blink, in scena ai Teatri di Vita come primo studio di Luca Carboni e Gabriel Da Costa, la difficoltà nel recensirlo costringe a mettere in luce il pregio dello spettacolo: l’assenza di riferimenti possibili e quindi l’originalità evidente del risultato.

Questo è uno spettacolo dedicato alla vista” dice uno dei due protagonisti in apertura. Si scopre in seguito che non tanto alla vista, quanto alla bulimia della vista – o all’eccesso di informazioni gettate in pasto ai nostri occhi – è dedicato il lavoro degli autori. E proprio il blink – che riecheggia nel titolo In the Blink of the Eye di Bob Wilson – il battito di ciglia, il frame (non è possibile parlare di frammenti) è la misura degli accadimenti che si susseguono, entrano l’uno nell’altro con fluidità.

Il carattere attoriale del lavoro, nella migliore delle accezioni possibili, si riflette nel taglio sartoriale dello spettacolo: immagini, situazioni realistiche, situazioni futuribili e parodie si accostano l’una all’altra sulla base di due principali fili conduttori: il tema delle immagini appunto, e il corpo dell’attore, che si presta con onestà e fino in fondo, secondo uno stile ed una grammatica impeccabili. Così è possibile, per lo spettatore, passare dal dialogo fra due ragazzini gay - in cui l’uno riprende l’altro per poi ricattarlo – alla stanzetta nerd di un blogger di successo; e da qui a sessioni di assoluta e pura sperimentazione con gli oggetti, e in particolare con la luce; con momenti in cui la riflessione si fa più esplicita, attraverso il racconto diretto oppure attraverso la preview di un futuro ipotetico, in cui persino un omicidio può essere messo in scena, pur di ottenere in cambio la celebrità.

Il legame, dove necessario, è dato dalle voci narranti degli attori in un interessante dentro-fuori che consente l’apertura verso il pubblico: apertura che però non viene trascinata troppo a lungo e non ha esiti prevedibili. La scelta nella costruzione del lavoro consente freschezza e fluidità; e rende accettabili momenti di grande intensità quasi provocatoria. Un’eterogeneità tenuta insieme in modo efficace, fresco e originale, che ricorda semmai il lavoro di Rafael Spregelburd. Indagine quindi sulla potenza della vista, ma anche sulla violenza delle immagini e sulla fragilità di un’epoca le cui derive virtuali confondono: perché in esse l’apparenza non solo conta di più, ma sostituisce definitivamente la sostanza; in cui la parola verità non ha più senso, e ogni cosa appare come un fenomeno transitorio che vive tanto a lungo quanto l’immagine può vivere nella memoria; per poi scomparire del tutto come la carta del giornale del giorno prima sul marciapiede: notizia stanca, come alla fine di una festa.