Prosa
BOBOK

Diplomati allo sbaraglio

Diplomati allo sbaraglio

Mettendo in scena ”Bobok”, la scuola teatrale svizzera Dimitri sapeva di giocare una puntata sicura. Sia perché Dostoevskij è sempre Dostoevskij, sia perché l’allestimento che quattro anni fa ha vinto il più prestigioso premio teatrale russo “Zolotaya maska” (“La maschera d’oro”)  non poteva non avere qualche pregio, persino agli occhi del sofistico pubblico europeo. Originariamente questo lavoro di Grigory Lifanov (professore dell’Accademia russa di arte cinematografica) è stato ideato come uno spettacolo per attori e marionette, con tutte le astrattezze che questa forma teatrale ammette. Tuttavia, anche nella sua più tradizionale versione elvetica – il frutto del brillante connubio tra la regia russa e la storica scuola teatrale di Verscio - resta un felice esempio di quando il rendez-vous con Dostoevskij porti non solo alla depressione e il duraturo iperautocriticismo, ma possa anche riservare qualche momento scherzoso e allegro.

Si pensa che l’idea del racconto sia nata a Dostoevskij a seguito di una pungente recensione del suo “Diario di uno scrittore” pubblicata nel 1873 da un giornale dell’epoca. Come spesso accade, i contemporanei non avevano colto lo spirito satirico di questa raccolta di racconti pubblicati a puntate, quindi  l’autore fu di nuovo aspramente criticato.  Gli studiosi di oggi, invece, trovandovi fra l'altro diversi paralleli stilistici con il più conosciuto “Diario di un pazzo” di Gogol, vi intravedono diversi spunti sia per riflettere sugli aspetti etico-culturali dell’epoca sia per capire meglio cosa il genio russo pensasse a proposito della morte.

Schematicamente il soggetto si presenta in questo modo. Un letterato etilista, stanco della sua ingrata posizione, impensierito del suo triste destino e in cerca di svago si reca … al funerale di un suo lontano parente.  Finito il mesto rito, manda giù un cicchetto e, addormentandosi su una lastra tombale, comincia a sentire delle strane voci…

Nonostante la lugubre ambientazione, l’atmosfera dello  spettacolo è tutt’altro che opprimente. 
Nella prima parte viene esaminato lo stato d’animo del protagonista, un mancato scrittore che sopravvive scrivendo slogan commerciali e necrologi.  Il suo attaccamento al bicchierino a poco a poco lo porta ad avere delle allucinazioni ed evidenti segni di sdoppiamento della personalità.

Nella seconda parte le maschere -  brutte, ma simpatiche – con l’entusiasmo proprio della gioventù, rappresentano sotto forma di una grottesca buffonata un racconto fantastico sulla vita post mortem con tutti gli attributi del caso:  bare, pietre tombali, personaggi dai volti putrefatti che sbucano da tutte le parti – dai teli dai toni lilla e grigio che ricoprono lo spazio scenico, da sotto la bara, da dietro le lastre inclinate. Ci sono tra loro una madama libidinosa, un tronfio generale che anche dopo la morte continua a dare ordini, un funzionario preoccupato per le proprie promozioni e per quelle degli ex colleghi, una giovane prostituta, persino un filosofo autodidatta, Platon Nikolaevich, con la sua teoria della vita nell’aldilà. Tutti loro, al posto di trascorrere i pochi giorni “di vita dopo la vita” a loro concessi riflettendo sul percorso appena compiuto, sprecano il tempo parlando delle cose vane che colmavano la loro esistenza di prima.

In toni comici viene interpretato l’episodio del fervore tombale di Klinevich. Anche sotto terra questo personaggio depravato non riesce a liberarsi dai suoi lascivi vizietti e cerca di corrompere tutti i suoi vicini. Poiché, secondo l’autore, i defunti non possono sentire il loro “naturale” odore di decomposizione, strada facendo diventa chiaro che il lezzo insopportabile che egli emana in realtà è un fetore metafisico proveniente dalla sua anima immorale.

Giocosità e ironia con le quali il regista e le nuove leve del palcoscenico stuzzicano l’argomento di per se serio, triste e di un’attualità indeteriorabile (aggettivo più che mai adatto al tema in questione) permettono di comprendere meglio l’ambigua polivalenza del pensiero di Dostoevskij. Malgrado l’apparente frivolezza, è uno spettacolo profondo che invita a rivolgere lo sguardo o, ancora meglio l’olfatto dentro se stessi, per provare a sentire che tipo di odore ne esce fuori. 

E non spaventatevi se, uscendo dal teatro, per un po’ di tempo vi sembrerà di sentire ancora “Bobok! Bobok!” A volte capita. Soprattutto dopo Dostoevskij.

Visto il 13-06-2012
al Arsenale di Milano (MI)