Il collaudato allestimento di Mario Pontiggia rispetta in pieno la tradizione e offre una lettura molto convenzionale della vicenda immortalata dalle note di Puccini.
Il collaudato allestimento di Mario Pontiggia, proposto nel 2015 nel capoluogo siciliano e successivamente dato al San Carlo di Napoli, rispetta in pieno la tradizione e offre una lettura molto convenzionale della vicenda immortalata dalle note di Puccini.
Paris est toujours Paris
È dicembre, ma a Palermo è ancora – o di nuovo, o sempre – primavera. La temperatura mite che accarezza la città contrasta con il freddo pungente dell’inverno parigino descritto in Bohème. Il Massimo è vestito a festa e accoglie il pubblico con una cascata di stelle di Natale che infiamma la fascia centrale dell’ampia scalinata e con i riflessi dorati delle luci che avvolgono le colonne del pronao corinzio e le palme circostanti come un sontuoso abito da sera.
Ad attendere lo spettatore nel tepore della platea c’è uno spettacolo senz’altro ben congegnato ma che, nel confermare l’immagine vulgata del capolavoro pucciniano, finisce per essere eccessivamente prevedibile. Come già osservato da chi scrive in occasione della ripresa partenopea avvenuta nel gennaio di questo stesso anno, le scene e i costumi di Francesco Zito, pur pregevoli ed eleganti, si adeguano a una visione stereotipata della capitale francese e restano privi di slancio poetico. Troppo grande e dispersiva la soffitta-hangar, troppo affollato il secondo quadro, sghembo senza motivo il terzo. In uno spazio nel quale non balena il guizzo della sorpresa, Pontiggia muove gli individui e le masse ordinatamente ma con poca fantasia. L’accentuazione dell’esuberanza giovanile nei protagonisti maschili rasenta talvolta la caricatura; più efficaci e appropriati appaiono i gesti che raccontano la tenerezza dell’innamoramento e il trasporto della passione.
Il risultato complessivo è una rappresentazione un po’ slegata, che sembra non trovare una sua cifra coerente e che perciò non permette alla partitura di sprigionare quel potenziale empatico grazie al quale di solito lo spettatore lascia la sala con gli occhi lucidi.
La magia della bacchetta di Oren
Daniel Oren, in gran forma, guida l’esecuzione con bravura. Due doti del maestro israeliano brillano con speciale nitore in questa Bohème: l’ottima intesa con gli interpreti vocali e la bellezza del suono orchestrale. Sempre attento alla tornitura della frase cantata, il maestro qui trascina e là attende gli attori, è pronto ad assecondarli ma sa anche imporsi con fermezza sapiente e perciò dolce e gradita. Una maggiore attitudine all’indugio sembra caratterizzare il cimento palermitano: i picchi emotivi della melodia sono sottolineati con un’enfasi particolare ma senza sbavature, come a voler arrestare il flusso ordinario in un lungo attimo sospeso e consentire così una più attenta e più profonda decantazione del senso. Gli strumenti in buca, da parte loro, suonano con precisione e sprigionano volumi sonori compatti che però lasciano sempre cogliere il dettaglio del fraseggio e il preziosismo dell’impasto timbrico.
Roberta Mantegna dà vita a una Mimì più appassionata che fragile, più tragica che sensibile. La voce è sicura, l’intonazione è perfettamente controllata; restano da perfezionare i colori. Generoso nell’emissione e convincente nel movimento, Matthew Polenzani offre un’interpretazione apprezzabile del personaggio di Rodolfo pur con qualche disomogeneità. Merita una speciale segnalazione e un plauso pieno Vincenzo Taormina, ottimo Marcello: in lui la potenza dell’ugola non impedisce l’esplorazione di sfumature espressive sempre varie e appropriate, così come il fisico possente non contrasta con la disinvoltura attorica.
Il pubblico applaude (talvolta troppo precipitosamente) ed esce, se non proprio commosso, di certo soddisfatto.