Rubare, cioè, qualcosa che è stato già rubato.
Come diceva Proust - ricorda Wim Vandekeybus nel programma di sala - la memoria visiva cancella i ricordi. Gusto e tatto sono sensi molto più sottili, ma la vista è dominante. E' per questo che si possono benissimo ricordare cose che non si sono mai vissute, semplicemente avendone viste le immagini.
Il musicista esegue dal vivo una partitura a sostegno di quanto accade sulla scena.
I performer e i danzatori e la danzatrice interagiscono scambiandosi il ruolo, senza perdere la loro specificità.
Questa macchina drammaturgica, per poter funzionare, ha bisogno di una storia da consumare.
Il performer Jerry Killick, rivolgendosi direttamente al pubblico, ce ne racconta due.
Quella dell'artista tedesco Joseph Beuys, che nel 1974 ideò la performance I like America and America Likes Me, durante la quale, per una settimana, visse in una gabbia con un coyote, coperto da un telo e con un bastone da pastore.
Killick ce ne propone una rivisitazione, usando i danzatori e la danzatrice al posto del coyote e se stesso nel ruolo dell'artistapastore.
Su questo pretesto narrativo si innesta la storia di Birgit Walter, un'antropologa dalla vita privata tormentata (i tre figli non hanno raggiunto l'età adulta) presente in scena e che commenterà la ricostruzione della performance di Beuys, sulla quale aveva scritto un testo nel quale individuava nel coyote una funzione sciamanica.
Bastano questi pochi elementi per mettere in moto un meccanismo teatrale che macina tutto, polverizzando ogni memoria storica (Beuys è esistito davvero), ogni retorica dei sentimenti (quelli frustrati dei figli per la madre che la rimproverano di non aver fatto loro da mangiare), ogni mito contemporaneo (la performance come unica evoluzione dell'arte, e del teatro) o classico (il richiamo Medea) tutti al servizio della macchina da spettacolo.
I tre figli di Birgit (i tre danzatori) sono tre ragazzi mal cresciuti che fanno di tutto per richiamare l'attenzione materna ma poi si distraggono per dedicarsi a una gara masturbatoria (vince chi raggiunge per primo l'orgasmo) e vengono uccisi senza una vera volontà come ottemperanza a un destino deciso altrove, con l'ausilio della fotocopiatrice che ne restituisce un'immagine alterata del volto deturpato da una smorfia di dolore.
Questa finzione non si spinge mai verso il metateatrale ma contribuisce meramente a ribadire come lo spettacolo (non solamente questo ma ogni spettacolo) occulti i sui processi di produzione e proponga al pubblico direttamente il prodotto finale.
Quando Birgit viene fotografata coi tre figli sui finti fondali, simulando quadretti familiari, questi set sono occultati al pubblico, che può vederne solo il prodotto (le foto) una volta proiettate sul grande schermo.
Un prodotto finale che si propone sempre con una propria cornice narrativa. Come ci spiega Killick, è la Birgit artista della Berlino anni 90 ad avere organizzato quei set finti, quelle ricostruzioni nelle quali ha ingaggiato degli attori ai quali ha scritto dei dialoghi, speculando su quel che i figli le avrebbero potuto dire, fossero stati ancora in vita...
In un divertito gioco parodico e irriverente, dell'arte e della performance, che è cifra e denuncia della superficialità della civiltà delle immagini nella quale viviamo, Booty Looting nega se stesso nello stesso momento in cui si presenta al pubblico.
Non solo perchè ogni immagine non è ma appare sempre altro da sé - ma anche perchè in questo mostraremostrarsi delle immagini Vandekeybus agisce una rimozione eclatante compiuta rubando al pubblico la possibilità di ogni vaglio critico.
Il vero argomento e fulcro dello spettacolo non sono infatti le immagini bensì la narrazione che fornisce quelle immagini di un contesto narrativo solo all'interno del quale esse acquistano un significato.
Quel che importa in questa drammaturgia - che avviene qui e ora nel nostro tempo e nella nostra civiltà - è proprio il consumo di storie e di racconti che, per quanto si pretenda derivino da fatti davvero avvenuti, in realtà cercano e trovano in se stessi la propria verità: non importa se Birgit sia ispirata a personaggi davvero esistiti, quel che importa è che su di lei e con lei (l'attrice che interpreta le varie incarnazioni) si possano raccontare delle storie che sono l'unico carburante di una scena cannibale priva di una vera urgenza comunicativa che non sia quella dell'autoreferenzialità: guardami io esisto e tu esisti solamente perchè esisto io.
Lo spettatore è chiamato al ruolo di mero testimone - proprio come nel caso della performance di Beuys del 74 - e poco importa che non si renda conto della differenza e capisca dove si trovi il confine tra realtà e finzione: ai fini del meccanismo narrativo questa differenza è irrilevante.
E in questa ineluttabilità del narrativo lo spettacolo si perde in una autocompiaciuta e voluta maniera non riuscendo (non volendo?) a emanciparsi dal narcisismo di una autorappresentatività che viene data per scontata e non consente allo spettatore di ragionare davvero sui mezzi di produzione di significato del testoperfomancespettacolo troppo impegnato a seguirne la trama là dove lo vuole lo spettacolo stesso vero e proprio personaggio necessario abdicando al ruolo di vaglio critico che rimane davvero l'unica resistenza possibile alla macchina della rappresentazione.