Il Regio di Torino apre la stagione con una versione mista di Boris, la partitura del 1869 (il cosiddetto “Ur-Boris”) con in più il quadro del bosco di Kromy (preso dalla seconda versione) a cui viene attaccato l'Epilogo: l'opera si chiude così con la morte del protagonista. Il capolavoro corale e politico di Mosorgskij convince sempre e comunque e la “glossa” appare contribuire in maniera non determinante.
La lettura che ne dà Andrei Konchalovsky è profondamente russa, concentrata nel rendere i fatti in modo narrativo, a-simbolico. Al centro di tutto il vuoto di Boris che lo zar avverte non solo dentro di sé ma anche attorno a sé, come abilmente sottolinea la scenografia.
La scena di Graziano Gregori è impostata su una pedana inclinata di tavole di legno che rimanda quasi al ponte di una nave, una “arca russa” in periglioso navigare. Il pavimento, sei piani sfalzabili, è in forte pendenza e questo mi è parso significativo: i protagonisti sono in precario equilibrio, come se tutto fosse in procinto (e in pericolo) di scivolare. E il vuoto domina tutto, in ogni quadro, tranne poche eccezioni come un leggio o tre sedili o un trono: una dimensione che annulla i luoghi riconoscibili.
L'essenzialità delle scene fa risplendere i costumi sontuosi di Carla Teti, bellissimi e ricercati, che ricreano la Russia storica nei minimi dettagli, persino le scarpe ricavate da stracci di lana tenuti insieme da stringhe di cuoio. Ai protagonisti riserva cappotti foderati e bordati di pelliccia per le scene esterne e soprabiti per gli interni. Il tutto nell'uniformità dei colori che virano al marrone.
Come si diceva, la scena è dominata piuttosto dal vuoto, un vuoto assai suggestivo nell'azzeccata illuminazione (dello stesso regista con la collaborazione di Vinicio Cheli). Il movimento delle sezioni della pedana consente di ricreare le ambientazioni delle varie scene, anche solo con l'ausilio di un fondale di tavole nere incatramate o di teli. Diverse le scelte convincenti: nel secondo quadro la pedana sale come a schiacciare il popolo e il figlio di Boris aggrappato alle vesti del padre (nel finale sarà il contrario: Boris, in preda al delirio, abbraccia il figlio); il gesto tipicamente russo della benedizione con tre dita; Pimen racconta la sua storia a Grigorij parlandogli nell'orecchio dopo essersi sincerato che non c'è nessun altro nei pressi dello scrittoio-altare; le inquietanti icone che emergono dal buio come visi in rilievo nel rame; tre panche intorno a un braciere per rendere la taverna nei pressi del confine con la Lituania;sempre sottolineato il rapporto tra masse popolari e potere politico.
Meno convincenti la stanza delle torture del quinto quadro, quando una pedana si solleva e rivela un corpo in catene grondante sangue, lo stesso sangue contenuto in una coppa che Boris scaglia contro il figlioletto; come anche l'enorme braciere-incensiere che dondola nel finale. Finale che è dominato dal trono vuoto che scivola in avanti, precipitando, quel trono che subito prima era come impennato sulle tavole verticali della pedana, irraggiungibile ormai per Boris. L'ultima scena vede il figlio dello zar portato via a forza, i boiari in ombra, i monaci illuminati da una fioca luce.
Il regista gestisce al meglio le masse corali, posizionate e mosse in modo adeguato all'andamento della storia e, per il resto, è attento alla narratività della messa in scena piuttosto che allo scavo psicologico dei personaggi.
Gianandrea Noseda si rivela attentissimo ad ogni dettaglio musicale e padrone della partitura; dirige con tempi giusti l'ottima orchestra del Regio; mantiene l'aura di solennità della partitura, sottolineandone gli impeti drammatici e gli afflati intimi; coglie tutte le inquietudini e le amplifica con arcate suggestive; evidenzia come al microscopio la notevole varietà di colori musicali, che riescono a rendere in modo penetrante la scrittura drammatica di un Musorgskij intenso e malinconico.
Orlin Anastassov è un Boris fisicamente imponente, sfrontato e tormentato: nel finale il suo piede nudo esprime, con una sola immagine, l'inadeguatezza dello zar nel ruolo e nel contesto sociale e familiare, ma il regista non concede il beneficio del dubbio sulla sua colpevolezza. Ian Storey è un Grigorij vocalmente potente ed espressivo che domina la scena con un'aura quasi sacrale. Vladimir Vaneev sostituisce l'annunciato Sergej Aleksashkin nel ruolo del monaco Pimen con una interpretazione emotivamente suggestiva, capace di rendere la spiritualità dell'anima russa e, al tempo stesso, la predestinazione (nel finale ha il volto rigato di sangue). Ottimo il Shujskij di Peter Bronder, nervoso e serpentino, dalla voce perfetta nei toni e nei colori. Emozionante la voce limpida e cristallina di Evgenij Akimov, un Folle in Cristo cieco che “vede” oltre. Perfetta e commovente la Ksenija un po' folle di Alessandra Marianelli che si dondola con il busto, lo sguardo fisso nel vuoto. Adeguato il resto del numeroso cast, dove hanno spiccato Vladimir Matorin (Varlaam) e Vasilij Ladjuk (Shelkalov). Da segnalare il Mikitic di John Paul Hunkle trascinatore del popolo. Fedor, figlio di Boris, è affidato alla voce bianca di Pavel Zubov.
Magnifico il coro preparato da Roberto Gabbiani, a cui si è aggiunto il coro di voci bianche diretto da Claudio Fenoglio.
Pubblico numeroso e attento, molti applausi alla fine. Il Regio ha annunciato il sostegno ai lavoratori del Carlo Felice in un momento drammatico per il teatro genovese: ai dipendenti viene accollato il peso di anni di cattive gestioni amministrative e artistiche e nel giorno della recita a cui abbiamo assistito il consiglio di amministrazione aveva respinto la proposta dei dipendenti di continuare con la decurtazione degli stipendi, cosa che avvia il teatro genovese verso la chiusura.