All'interno del progetto Fondamentalismo di Antonio Latella per il Nuovo Teatro Nuovo, Tommaso Tuzzoli firma la regia di Brand, un dramma di Henrik Ibsen del 1866, non concepito da subito per il teatro, ma rivelatosi subito molto adatto al palcoscenco.
Questa volta il fondamentalismo è quello cristiano/occidentale, e parte dalla domanda che si vuole porre il regista su quale possa essere la funzione attuale del tentativo di fondere la vita reale con l'ideale della vita, sebbene nella luce troppo intensamente attiva, anzi attivista, di questo pastore protestante di Ibsen.
Brand torna nella sua terra dopo anni, per predicare alla sua gente (“scarti di anime”) cercando di trasmettere la sua visione della ricerca della salvezza ultraterrena attraverso il rigore assoluto di una sfida infinita -e perciò necessariamente perdente- a tutte le cose cui umanamente i suoi proseliti potevano dedicarsi in pressochè ogni ambito dell'umana ed ordinaria sperimentazione di vita.
Le scene ed i costumi di Fabio Sonnino ci trasportano in una Norvegia dalla natura ostile, tra fiordi e ghiacciai, carestie ed isolamento, e l'atmosfera è adatta per inscrivere Brand in un rapporto primordiale ed estremo in ogni sua manifestazione, perfino negli affetti primari.
Tratta ogni suo concittadino con sprezzo di ciò che è diventato, naturalmente per non essere stato ancora illuminato, e ponendosi da subito contro gli “schiavi della gioia” che hanno bisogno di “un Dio cauto e grigio come la loro fede”, fino alla spietata condanna della sua stessa madre, quali che fossero i motivi per tanta spietatezza (“Tu sola dovrai pagare per i peccati che hai commesso"), fino ad abbandonarla in punto di morte, senza pietà ("Chi vuole vincere, non ceda").
Brand è colui che aspira al proprio annullamento per essere la tavola sulla quale il Signore scriverà le sue parole, nel costante principio dell'aut-aut di Kierkegaard: tutto o niente, non contrattare mai, non fare compromessi, ispirarsi a quel Dio di pura energia che tutto muove e smuove, e che i miracoli “lui si alza e va a farli”, quasi come un Sovrano da manifesto futurista.
E comincia anche ad avere un certo seguito, comprensibilmente in un luogo ed in una epoca in cui una qualunque forma di speranza poteva venire somminstrata positivamente in dosi così massicce: fra tutte, la figura più significativa è senz'altro quella di Agnese, che lascia il suo uomo per seguire Brand e dargli un figlio che a sua volta verrà sacrificato per la purezza del suo ideale supremo, anche se stavolta non senza conseguenze che peseranno sulla sua sanità e soprattutto su quella di Agnese: in una scena di indubbia efficacia, con la sua furia spezza un blocco di ghiaccio a martellate come per rompere quello del suo cuore, e per rifiutare la sua condizione ed i suoi ghiacci in cui è stata costretta a seppellire i sentimenti urlando un paradosso che fa quasi ridere, per la sua enormita: "Io l'ho messo al mondo per vederlo morire, e questa sarebbe quella che chiami la mia vittoria...?!?", poggiandosi poi sopra come per avvolgere i resti del figlio in una ultima, inutile protezione dal ghiaccio.
Ma nell’adattamento del Nuovo, ha una grande valenza anche il valore politico del dramma, suggerendo il bisogno di riflettere fra la supremazia del bene comune rispetto a quella del singolo, ed allora ecco un mellifluo Podestà che blandisce il pastore in quanto strumento di aggregazione del consenso al suo servizio, e cerca di attirarlo nella normalizzazione del suo potere temporale, alias lo Stato o chi per esso, ma lui non cede e rilancia ancora una volta, con sermoni spietati in cui scenograficamente si percepisce la sua vera immagine, quella più rappresentativa, ovvero l'ombra proiettata sulle pareti di fianco che si agitamentre le parole si infiammano: le parole perdono ogni significato, quello che vale è la sua ira, quella di chi non vede mai in Dio un Padre, ma un Padrone.
Uno svolgimento sempre molto rigoroso e sempre altamente aderente allo spirito Ibseniano, questo del Nuovo che coinvolge l’intera compagnia stabile, anche in quei punti necessariamente gravidi di un tormento inflitto a sé stesso ed ai suoi conterranei.
La fine di Brand è quella di vedersi giudicato (già, anche lui...) alla stregua delle sue sentenze proprio da un “ex peccatore” che a sua volta si ritiene più puro di lui, e gli fa desiderare infine di morire da solo chiedendo a Dio: «Rispondimi o Dio, nell'ora in cui la morte mi investe, non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo a conseguire una sola parte di salvezza?», ed ottenendo in risposta dalla bocca dello spirito della madre, finalmente, quella che sembra l'unica voce sana dopo tante, troppe asperità mentali: «Figlio mio, Dio è carità».
BRAND
Fede, senza pietà.
Visto il
17-12-2010
al
Nuovo
di Napoli
(NA)