Un viaggio nel tempo attraverso lo spazio oscuro e segreto della grotta di Seiano, ancora risuonante delle catene dei tanti schiavi occorsi in quel luogo per perseguire il genio spregiudicato e la raffinata tecnica della più che determinata civiltà romana, ci conduce in una calda domenica di maggio dal panorama post-industriale della depredata Bagnoli all’immenso splendore della villa di Publio Vedio Pollione, gioiello archeologico dell’area naturalistica della Gaiola. E’ in questo spazio senza tempo che accogliamo la pièce “Cafone!” per la drammaturgia di Antonella Cilento, con Gea Martire, per l’accompagnamento percussionistico di Adriano Poledro.
Al centro dell’anfiteatro, in cui solo uno scanno compone la scenografia, Gea Martire porta in scena l’interrogatorio/processo alla brigantessa sannita Filomena Pennacchio, detta ’a Fuchera, una delle più famose fra le donne che si ribellarono, armate, alla feroce repressione piemontese durante il processo che portò all’Unità d’Italia.
E’ più che evidente quanto l’oggetto in sé del narrato sia d’interesse. Pochi ancora risultano essere i momenti di aperta riflessione e critica, da parte della società italiana, sull’annessione delle terre del Sud e sulla conseguente depauperazione delle sue ricchezze. Colpa di un più che efficace indottrinamento scolastico e vittima del suo stesso congenito fatalismo, il Meridione solo da pochi anni ha trovato il coraggio di rivangare il proprio passato riflettendo su questioni fino a poco fa destinate a nostalgici circoli neoborbonici. Purtroppo, appena allontanatisi dalla semplice narrazione dell’evento storico, la riflessione e la conseguente critica è il più delle volte solo formale e spesso immatura. Si cade con costanza nella più semplicistica contrapposizione tra Nord e Sud, poveri e ricchi, onesti e disonesti; in parole povere, buoni e cattivi, che seppur solleticante sempre un facile riso e qualche lieve moto di rabbia, non aggiunge alcunché.
In questo senso l’opera della Cilento, seppur sapendo sviluppare un plot ricco di colori, enfatizzati dalle padronanza interpretativa di Gea Martire, resta monco di un’interiorità. Di certo c’è l’intimità psicologica di Filomena Pennacchio, ma per lei, forte ed imbelle, essere brigantessa è soprattutto un modo per essere rispettata e libera, anche di amare e di essere donna e non solo femmina. Forse i “briganti” erano qualcosa di più e di altro e non solo “cafoni”. Forse l’annessione del Sud non è solo la macchietta del furbo piemontese che architetta l’inganno alle spalle del passionale meridionale ma più probabilmente afferisce ad un’articolata politica degli Stati nazionali dell’Europa continentale del XIX secolo. Non sarà questa, purtroppo, l’occasione per scoprirlo.
Quanto alla messa in scena, l’accompagnamento percussionistico, scarno ed essenzialmente rumoristico, risulta essere più che altro un riempitivo e non dona alcun valore aggiunto all’opera.
Resta entusiasmante la maestria di Gea Martire nell’indossare questi abiti e saper orchestrare corpo e voce in un unico ensemble, forgiandoli ad oggetti materiali dell’inesistente scenografia. Purtroppo l’assenza di una regia non omogeneizza l’insieme e non porta a piena maturazione alcuni pregevoli movimenti di scena come la fucilazione della “fuchera” sul ritmo di un’incalzante tammorra salentina.
Standing ovation per un’attrice che con sensibilità e maestria, senza mai uscire dal personaggio, riesce a comunicare con il pubblico ed a comprenderne la voglia di proseguire quando alcune gocce di pioggia cominciano a bagnare gli spalti.