CALDERON

Il testo di Pasolini &egra…


	Il testo di Pasolini &egra…

Il testo di Pasolini è una complessa e dolorosa catabasi onirica attraverso vari strati sociali corrispondenti a diversi livelli di abiezione morale: si va dall’aristocrazia/alta borghesia, connivente con i totalitarismi di tutti i tempi, al piccolo proletariato urbano, abbrutito dalla miseria, costretto al mercimonio di sé per procurarsi di che vivere, fino alla piccola borghesia, ipocrita e immobilista, scopofila e civettuola, peggiore di qualsiasi fascismo. L’ambientazione è quella della Spagna dell’epoca di Franco, in filigrana l’opera allegorica di Calderón de la Barca La vita è sogno. Rosaura, la protagonista del dramma, si sveglia, di volta in volta (da un sogno di cui percepiremo la portata solo alla fine dell’opera) in una condizione sociale differente: figlia di aristocratici, prostituta, moglie borghese.

La regia di Saponaro è sobria e compassata. Gli interpreti, ottimamemente orchestrati, sono decisamente convincenti. Davvero suggestiva la scena di Lino Fiorito che decodifica in filmati proiettati su schermi alle spalle dei protagonisti il gioco catottrico che Pasolini ricava dal quadro di Velasquez Las Meninas e che deve servire per creare quel sottile, ambiguo gioco di complicità e repulsione tra pubblico e opera d’arte e tra artista e committenza.  Tuttavia, quanto sarebbe stato più geniale il tutto se ad essere proiettati sugli schermi/specchio non fossero stati gli attori ma il pubblico in sala, sprofondato nella rassicurante oscurità della sala all’italiana. Il che ci porta ad interrogarci su di una questione di non poca importanza: Perché Carmen, la prostituta del terzo episodio del Calderón di Saponaro, parla in dialetto napoletano? Sul libretto di sala leggiamo: “la grande forza intellettuale di Pasolini è quella di avere riferimenti altissimi ed essere, allo stesso tempo, uno spirito innamorato della vita, disperata e plebea, che in quest’allestimento trova il suo vigore pulsionale nell’innesto idiomatico tra castigliano e dialetto napoletano”.

Tuttavia, se l’inserto linguistico castigliano è filologicamente giustificato dalla nativa ambientazione del dramma pasoliniano e dal suo architesto barocco, non è così immediato il motivo per cui si ricorre al dialetto napoletano per connotare un personaggio emarginato e plebeo, come la prostituta Carmen. Senza dubbio Maria Laila Fernandez (premio Hystrio 2014), Rosaura nell’allestimento di Saponaro, orchestra sapientemente i propri iberici gorgheggi, torturando e vellicando al contempo la platea, scagliando strali di parole in spagnolo sul pubblico, trasformando la propria bocca, la gola e il viso in un tizzone di umana disperazione, una tumida, urlante brace di carne. Ella è Rosaura nel tempo fuori sesto del sogno, porta dentro di sé grumi barocchi mescolati alla solitudine animalesca delle creature pasoliniane. Questa lingua di Rosaura dona indubitabilmente al lavoro di Saponaro e al testo di Pasolini un discreto “vigore pulsionale”; essa è energia pura non mimesi di energia, verbo incarnato non simulacro di suono, è identità di corpo e materia spirituale non scaltro impasto di espressionismo dialettale e becera tipizzazione su base regionale.

Dunque, se con estrema naturalezza e senza riserve lo spettatore - anche solo minimamente avveduto - si abbandona alla schizofrenia linguistica di Rosaura percependone tutta la valenza simbolica ed espressiva, questo stesso spettatore, di fronte allo sguaiato siparietto in dialetto napoletano che vede protagonista la bravissima Clio Cipolletta – che interpreta, tra gli altri, il personaggio della prostituta Carmen - resta interdetto. Cosa fare? Viene da chiedersi: abbandonarsi alla risata sincera, sinceramente emersa da quel fondo classista che non può non leggere in quel cantilenato exploit da “vasciaiola” navigata un corrivo ammiccamento alle proprie esigenze di distanziamento sociale o interrogarsi seriamente sul proprio ruolo di spettatore, sui propri appetiti intellettuali, sull’ipocrisia di un teatro che si regge sul consenso e sul compiacimento di una classe sociale che dovrebbe essere l’oggetto o la vittima del suo sguardo notomizzante? Su questo Pasolini era stato fin troppo chiaro, chiaro fino ai limiti della brutalità, della sgradevolezza estetica e intellettuale, chiaro fino alla crudeltà, fino alla tortura, all’offesa, all’oltranzismo visivo, chiaro fino alla contraddizione: il pubblico senza ombra di dubbio riderà e in quella risata sincera e rassicurante ritroverà tutto l’equilibrio e le certezze di classe, tutta la sicumera di chi è depositario del potere e in una certa misura perfino della cultura, che per qualche attimo, tra la veglia e il giustissimo sonno del frequentatore teatrale infrasettimanale, la parola di Pasolini ha fatto vacillare.

Visto il 25-02-2016
al Nuovo di Napoli (NA)