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CANDIDO - VIAGGIO TRAGICOMICO NEL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI

Di nuovo possibile, ancora migliore

Di nuovo possibile, ancora migliore

C'è una sorta di malinconia diffusa, o perlomeno di ricordo affettuoso dei grandi maestri, Luzzati e Cereseto, che pervade questo nuovo allestimento del Candido, in scena per il decennale della scomparsa di Emanuele Luzzati.

I costumi di Paola Ratto e Bruno Cereseto, ispirati a quelli creati da Luzzati per il Teatro di Saint-Louis nel 1994, contribuiscono a ricreare un’atmosfera nostalgica ma unica.
Tra marionette, fondali, oggetti scenici e costumi, si muovono interpretazioni di grande spessore, pur nel filo di prendere consapevolezza di un’assenza, o perlomeno di qualcuno che ci ha lasciati: così un Enrico Campanati in piena forma si cimenta con il doppio ruolo di Voltaire e Pangloss (che fu dell’indimenticato Cereseto), Pietro Fabbri, sempre brillante, è Candido, in marionetta e in carne ed ossa, Sarah Pesca, reduce dal recente successo di Eurydice, è Cunegonda mentre i panni dell’Anabattista Jacques sono vestiti da un godibile e divertente Roberto Serpi.

I costumi e le scene – dicevamo- paiono meritare uno spazio tutto per loro, come un personaggio a se stante di incontrastato fascino: il patibolo dell’Inquisitore, i pannelli della lussureggiante vegetazione di Eldorado, i fondali di una surreale e metafisica Venezia da Carnevale.
Ma non è la loro sola bellezza a regnare incontrastata: è la capacità del regista e degli attori di dialogare con questi frammenti di bellezza, ricordi di chi non c’è più e rapportativi su un piano attuale, a partire dall’assenza, dalla percezione di vuoto e perdita.
Così Pietro Fabbri diventa un sapiente manovratore della marionetta di Candido giovinetto (creando un interessante parallelismo tra personaggio di legno/di carne che pare rimandare all’altra storia di formazione per eccellenza, Pinocchio): lo seguono Sarah Pesca, l’Anabattista, mentre lo schiavo Cacambò sa ricreare una rilettura moderna e interessante del dialogo con il Padre gesuita.

Una menzione a parte meritano alcuni oggetti, in particolare il piccolo tavolo di scena capace di diventare barca nel mare in tempesta in cui muore lo sfortunato Jacques.
Interessante qui (e azzeccato) l’inciso di Candido che osserva come solo a teatro anonimi oggetti possano diventare realmente evocatori di una realtà differente costruita in modo attivo dalla percezione del pubblico, mentre al cinema immagini apparentemente più verosimili scorrono sempre uguali sulla pellicola, come in una sorta di sogno dello spettatore.
La parentesi, tutt’altro che superflua, è in linea con le tematiche affrontate dal Candido, in primis la presa di coscienza del personaggio e, non da ultimo, la sua perdita di ottimismo, inteso quale aprioristica “convinzione che tutto va bene, anche quando niente va bene”.

Tra mondi possibili che smettono di essere migliori, la vicenda di Candido trova il suo climax in una surreale Venezia (in cui le gigantesche maschere in bianco e nero contribuiscono a rafforzare il clima angoscioso) dove ogni certezza filosofica si sgretola, ma si fa strada l’idea che, necessariamente, “occorre coltivare il proprio orto”.
Così, orfani dei nostri grandi maestri come Candido lo è di Pangloss, sentiamo anche noi che la chiave di volta di tutte queste speculazioni è in fondo l’irriducibile scintilla, l’indicibile intuizione, quel quid misterioso che ci tiene vigili, sul palco come nella vita.

Visto il 18-01-2017
al Della Tosse di Genova (GE)