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CANTO POPOLARE

Una lettura che è uno spettacolo

Una lettura che è uno spettacolo
Montecarotto (AN), teatro Comunale, “Canto popolare” da Pier Paolo Pasolini UNA LETTURA CHE E’ UNO SPETTACOLO Maddalena Crippa legge le poesie di Pasolini. Detto così lo spettatore potrebbe pensare, erroneamente, di assistere, appunto, a una semplice lettura. Erroneamente, perché la lettura di Maddalena Crippa è talmente emozionante e compiuta e significativa da essere uno Spettacolo. Di più: è l’unico teatro (anzi, Teatro) che in questo momento abbia un senso. Maddalena Crippa legge diversi brani, estratti da “Le ceneri di Gramsci”, “La religione del mio tempo”, “Poesia in forma di rosa” ed altro che non ho riconosciuto. Perfetta è l’atmosfera: palcoscenico foderato di nero e buio, la Crippa vestita di nero e illuminata dall’alto, a rivelare solo il viso e le mani. E la voce, l’incanto della serata. Chi ha seguito la carriera della Crippa negli ultimi quindici anni l’ha scoperta cantante e lettrice, oltre che attrice (se poi la distinzione tra le categorie ha ancora un senso, cosa di cui dubito fortemente). Da “Canzonette vagabonde” a “A sud dell’alma”, la Crippa ha lodevolmente portato al pubblico testi di enorme significato ed intensità, passando per un unicum: la lettura a Jesi nel 1998, in una piazzetta del centro storico (con sontuoso abito viola), di alcune poesie del Risorgimento in occasione del bicentenario dell’inaugurazione del teatro Pergolesi. Io c’ero, e da quella volta “A Venezia” di Arnaldo Fusinato mi ha talmente emozionato che non posso andare a Venezia (e ci vado spesso) senza risentire ancora, nella memoria, la voce della Crippa che legge quei versi struggenti in modo indicibilmente struggente. Ma torniamo a “Canto popolare”. Uno spettacolo nello spettacolo sono gli inserti musicali di Paolo Schianchi. Il primo brano, all’apertura del sipario, è straniante, i suoni prodotti dalle due chitarre, elettrica e classica, si mescolano, ma non è una unione di oggi e di ieri, neppure di ieri e di domani, è qualcosa di indefinibile e talmente affascinante che si rimane quasi turbati. Disorientati. I piedi nudi del musicista corrono sui pedali, distorcendo i suoni prodotti dalle chitarre o unendo a questi ultimi altri suoni, echi, risonanze, grazie a Octopus, un sistema elettroacustico di sua creazione. Nelle pause della lettura ci sono altri due interventi di Schianchi: io non ho mai sentito prima d’ora suonare così la chitarra. Pazzesco. Un valore aggiunto alla poesia di Pasolini. Poesia che però, fortunatamente, viene letta senza sottofondo, in modo che la parola riempia il teatro, illumini il buio. La parola nuda. La parola e nient'altro. Tornare a Pasolini oggi è una necessità: il carattere mite, le idee anticipatrici, l’intelligenza lucida e pronta, il coraggio di fare certe scelte assumendosene fino in fondo la responsabilità. E quel mare di scritti che ci ha lasciato, stordenti, complessi, totalizzanti. Un magma che ancora ribolle e che non viene indagato con sufficienza. E dire che sarebbe utile, anzi indispensabile per decifrare il presente. O, perlomeno, per tentare di farlo. Dopo l’introduzione musicale di Schianchi, una luce dall’alto rivela la presenza di Maddalena Crippa in piedi davanti a un leggio. Qualche istante di silenzio che pare lunghissimo, assorbente. L’attenzione è massima, l’urgenza di iniziare si respira nell’aria. Un’attesa vibrante. E la prima frase, dopo quel silenzio che pare interminabile, pesa come uno scoglio: “Io sono una forza del passato”. Maddalena Crippa legge con tale intensità che lo spettatore è rapito, stordito, in balìa di una sorta di rito civile, avendo tutti compreso da subito l’urgenza e la necessità della poesia di Pasolini e quanto la Crippa creda in quello che legge (rectius, recita) con tanta, emozionante intensità: “E io mi aggiro a cercare fratelli che non sono più”. La voce recitante (che davvero definirla lettura pare un peccato mortale) tocca tutte le corde possibili dei sentimenti e nelle descrizioni pare evocare il caldo di maggio, i rumori della periferia romana, persino gli odori. Una esperienza unica. Le mani della Crippa si muovono impercettibilmente, eppure alzano al massimo la veicolazione della parola. A cominciare da quando legge “viziose chitarre ronzano di felicità” e il dito indice indica vagamente la postazione vuota di Schianchi (lui dietro le quinte). Da “Le ceneri di Gramsci” ecco “Me ne vado, ti lascio nella sera / che, benché triste, così dolce scende / per noi viventi”. Pasolini risponde “alla mistificazione con la mitezza”, per lui “solo l’amore conta”, come ribadisce sempre nelle Ceneri di Gramsci: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’avere amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più”. “Bisogna essere molto forti per amare la solitudine”. Un breve istante di silenzio separa una poesia dall’altra, un brano dal successivo, le pagine voltate con ampio gesto. “Siamo stanchi di fare i giovani seri, contenti per forza”. Dopo una pausa musicale di Schianchi, stavolta seduto a terra illuminato di rosso, ecco le origini familiari di Pasolini, lui che si riteneva “il prodotto dell’unità d’Italia”, unendo in sé tante origini diverse, nord sud, est, ovest. Poi ancora poesia, talmente attuale da non credere che sia tutto Pasolini: “non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine; non si lotta solo coi discorsi: la lotta più dura è nell’intimo delle coscienze”; “il mite e il buono, se si ribella, va fino in fondo”; “un poeta deve avere delle illusioni, ma quando le perde non deve illudersi di averle ancora”; “con gli amici ci si esprime esistendo”. Viene evocata Roma, principalmente, ma anche altro, in una geografia dell’anima che descrive luoghi ideali, contenitori di sentimenti, occasioni di indagini sul reale e sul contemporaneo. La Crippa è di una bravura pazzesca: sembra di sentire lo schianto di quella serranda di un garage al Testaccio, o l’odore dell’immondizia in quel maggio romano: “è un brusio la vita”. Quanto sarebbe stato utile oggi avere ancora qui Pasolini, testimone: “in questo mondo colpevole che solo compra e disprezza, il più colpevole sono io, inaridito dall’amarezza”. Quindi un brano molto conosciuto, “L’usignolo della chiesa cattolica”, tratto dalla “Religione del mio tempo”, “luce morale e resistenza”, recitato con veemenza e passione. La serata si chiude con la parola, prima del buio. Il pubblico, impazzito, non smette di applaudire. La Crippa, come bis, legge alcuni stralci dell’ultima intervista concessa dal poeta a Furio Colombo, il giorno prima di essere ucciso. Parole profetiche, che, in questo momento, fanno rabbrividire e confermano l’onestà straordinaria di Pasolini nel capire ed analizzare la realtà al di là di ogni ideologia: “Siamo tutti in pericolo”. “Perché lo siamo davvero”, chiosa Maddalena Crippa. Teatro gremito, bel pubblico, applausi infiniti: uno spettacolo imperdibile. Speriamo che la Crippa lo registri, per eternare quei momenti. Visto a Montecarotto (AN), teatro Comunale, il 13 marzo 2010 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Comunale di Montecarotto (AN)