Non si dovrebbe iniziare, riferendo di un nuovo allestimento operistico, dalla sua componente visiva e lasciare in seconda battuta quella meramente musicale. Ma in questo caso è quasi un obbligo, dal momento che questa nuova Carmen del Comunale di Bologna – che fa seguito a quella firmatavi nel 2010 da Michele Mariotti e Andreys Žagars – viene a segnare l'esordio in campo lirico nella propria città del poliedrico Pietro Babina: autore teatrale, regista, scenografo, fondatore e guida per un ventennio della compagnia Teatrino Clandestino. Rilettura che è stata accolta alla prima da una selva di vivaci contestazioni, poi quietatesi nelle repliche seguenti benché, come abbiamo constatato di persona, nel foyer e nei corridoi perdurassero molti brontolii d'insoddisfazione. Cosa molto strana, in verità, perché in fondo lo spettacolo realizzato da Babina, impegnato in veste di regista e scenografo - mentre i costumi erano affidati a Gianluca Sbicca - non ci è sembrato di per sé rivoluzionario, né irriverente verso il testo - pensiamo a Carmen già più dissacranti, come quella di Calixto Bieito vincitrice del Premio Abbiati 2011 - seguendo un filo logico che magari può anche non aggradare ad ognuno, ma che è innegabilmente centrato e coerente.
Pensando forse alla Spagna tutta di fantasia che Bizet s'era costruito da solo, Babina ha ricreato un paese un po' surreale, da cartolina; una Spagna ad uso e consumo di un certo turismo low-cost allettato dalle convenienti offerte di viaggio riportate sui grandi tabelloni, come quelli che qui troneggiano in scena. Così la taverna di Lillas Pastia è uno di quei “locali tipici” dove vacanzieri in t-shirt, cappellino e braghette corte assistono ad esibizioni di flamenco e di magia; ma poi con bell'effetto di contrasto, scopriamo che i nostri simpatici contrabbandieri si arricchiscono – amaro riferimento all'attualità - organizzando ben altro genere di viaggi, trasportando profughi e migranti clandestini. Alla fine, però, una volta giunti nella Plaza de Toros l'uccisione di Carmen torna ad essere una mera finzione, una recita folkloristica per intrattenere un pubblico sovreccitato, avido di emozioni e di colore locale, con i due attori subito in piedi per raccogliere gli applausi.
Sparsi qua e là, si scoprono poi sapienti tocchi di regia, chiari indizi dei trascorsi teatrali di Babina: a tenere le fila del gioco sono un sinistro, allampanato prestigiatore, rappresentazione di un ferale ed inevitabile Destino, ed uno stuolo di irrequieti diavoletti rossi: ed eccoli rappresentare i ragazzini del cambio di guardia, muovere come burattinai i personaggi, mimare i chulos, i picadores, i banderilleros della corrida. Josè non sembra proprio un figlio modello, visto che prima apre la busta di denaro che gli manda la madre, e solo dopo la lettera che l'accompagna; Micäela è una ragazza impacciata e un tantino bigotta, con tanto di crocefisso al collo, per nulla attraente; e José pare non prestarle troppa attenzione, seguendo invece con malcelato nervosismo la corte che Zuaniga fa alla bella sigaraia. E poi: la mano che ripetutamente Carmen poggia sul petto del giovane dragone è simbolo di un affondo, d'una volontà di possesso su quel cuore, ma nello stesso tempo un gesto di distanza; Escamillo è chiaramente consapevole di far parte d'uno show business per vacanzieri, e quando da semplice escursionista, zainetto in spalla, raggiunge la tana dei contrabbandieri, scansa con palese sollievo il duello con José e si allontana distribuendo festosamente biglietti omaggio della sua prossima esibizione a tutti, clandestini compresi. Invenzione dopo invenzione, Babina restituisce insomma una drammaturgia che non sarà magari un capitolo indimenticabile nella storia del melodramma, ma che nondimeno procede senza sbandamenti, efficace e convincente. E, caso non frequente, è una Carmen completa di tutti i dialoghi parlati.
Dopo tanto parlare dello spettacolo, arriviamo finalmente al direttore, Frédéric Chaslin: che è un profondo conoscitore del capolavoro di Bizet – in You Tube potete trovare una sua bella direzione all'Opéra Bastille del 1997 – e quindi non può certo deludere. Una visione, la sua, senza enfasi né retorica pompier, aliena da effetti plateali; elaborata mediante un gioco di tensioni drammaturgiche e musicali, costruite con perizia ed accortamente diluite nel tempo e nello spazio. Precisa, stringente, drammatica; attenta ai contrasti, al mutare dei colori, alla varietà dei ritmi, ma senza cadere in una visione esageratamente edonistica ed estroversa (o peggio ancora, folklorica) della partitura. Per chi non lo sapesse, Chaslin è anche un notevole compositore; e questo suo procedere - quasi un analizzare, scomporre e ricomporre frammenti musicali – lo apparenta in qualche modo al compianto Pierre Boulez, pure lui direttore e compositore al tempo stesso. Per qualcuno, una lettura non tutta eclatante, forse con un pizzico di routine. Nondimeno, una routine senz'altro di gran lusso, alla quale l'ottima Orchestra bolognese ha saputo dare piena compiutezza.
La protagonista assoluta di questa Carmen felsinea è Veronica Simeoni, che con il suo splendido e vellutato timbro mezzosopranile regala ancora una volta una figura muliebre dai tratti raffinati, confermando quanto sentito da noi tre anni fa in una sua performance veneziana. Non una zingara sfrontata e lasciva, mangiatrice d'uomini, bensì una ragazza dalla vitalità più näif che selvaggia, che seduce non tanto per la sfrontata bellezza, quanto per un'inquieta, esuberante e sfaccettata femminilità; una Carmen che si impone saldamente sulla scena, per di più, per una vocalità flessuosa nel fraseggio, piena nei bassi e ferma nel registro superiore, e per quel suo smalto vocale limpido e lucente.
Qualche riserva nasce invece per il tetragono José di Andeka Gorrotxategui – avvicendatosi nelle recite con Roberto Aronica – che pure dispone di mezzi vocali più che ragguardevoli, specie nella disinvoltura verso salite squillanti e nella cospicua tavolozza di colori. Però, con tutta evidenza, non basta spargere virilità ed enfasi a piene mani – i suoi modelli sembrano Domingo e il Corelli dei tempi d'oro, facili da imitare ma pericolosi per lo strumento – ma serve pure mettere in campo un poco più di finezza, di introspezione, di scavo psicologico, di cui qui non c'era ombra. E se il tenore basco partitiva bene nel duetto con Micäela, facendosi ammirare per certi ben riusciti filati, poi man mano si dimenticava che Carmen è un raffinato operà-comique, e non la Cavalleria rusticana, ed il suo bel dragone – rivelatrice L'air du la fleur - si apparentava sempre più al nostro fosco Turiddu.
Anche per Maria Katzarava, debole e impacciata Micäela, fatti i conti alla fine non molto c'era da ricordare in una prestazione abbastanza incolore, vocalmente priva di convinzione e di sfumature: povera nel metodo, limitata nei centri, modesta (e non sempre aggraziata) nella resa degli acuti.
Simone Alberghini giocava in casa – Bologna è la sua città - con il suo toreador, volutamente poco eroico e piuttosto un po' sornione, come regia comanda; vocalmente; un Escamillo esuberante e vigoroso nell'accento ma non sempre impeccabile, per qualche piccolo passo falso nell'emissione.
Comprimariato non sempre scelto con buona oculatezza: Sonia Ciani e Antonella Colaianni impersonavano rispettivamente Frasquita e Mércèdes, risultando impeccabili in scena; Maurizio Leoni e Paolo Antognetti impersonavano molto bene, e con buona disinvoltura il Dancaïre e il Remendado, però musicalmente apparivano poco differenziati; bene Massimiliano Cattelani come Zuniga, Nicolò Ceriani come Moralés. Completavano le parti di fianco Lucia Michelazzo (la venditrice d'arance) e Sandro Pucci (uno zingaro), l'attore Alessandro Ciardini (Lillas Pastia), ed il mimo Andrea Fidelio (il Mago).
Elogi molto meritati al Coro del Comunale, preparato da Andrea Faidutti, così come ai piccoli cantori istruiti da Alhambra Superchi: impegnati inoltre, quest'ultimi, come piccoli attori nelle tutine rosse dei vivaci diavoletti.
(foto di Rocco Casaluci)