Lirica
CARMEN

Carmen a Cuba

Carmen a Cuba

La stagione del Carlo Felice di quest’anno è stata scandita da spettacoli di qualità, tre dei quali firmati da Davide Livermore (dall’Otello in apertura, al recente Billy Budd  fino alla Carmen ora in scena), che confermano come il teatro genovese stia riprendendo un posto di rilievo nel panorama lirico nazionale.

La Carmen di Livermore aveva debuttato l’anno scorso suscitando interesse e scalpore per la trasposizione della vicenda dall’Andalusia da cartolina evocata da Bizet alla Cuba della rivoluzione castrista di fine anni ’50. E’ comprensibile che una parte di pubblico non si riconosca in una tale scelta registica, ma lo spettacolo, peraltro realizzato con pochissimi mezzi, è coerente, avvince e funziona. L’impianto scenico (ideato dallo stesso regista curatore anche delle luci) è costituito da una scalinata in pietra aperta contro uno sfondo animato da videoproiezioni che si fanno elementi scenografici. Durante gli intermezzi orchestrali scorrono sul velatino fotografie, pubblicità anni ’50 e video di repertorio che introducono il tema dell’atto successivo: dalle mulatte con l’avana in bocca fino a Che Guevara e Fidel Castro e il giusto abbinamento immagine/strumentale determina un deciso andamento filmico.

ll primo atto è ambientato sul lungomare dell’Avana, il Molecòn, lambito da onde e nuvole in movimento con il profilo della città sullo sfondo. Assistiamo a un'esplosione di energia e colore, con la folla in variopinti abiti anni Cinquanta, marinai, militari e bande di bambini che giocano a baseball. Si respira il musical (da West side story a Grease) nella cura coreografica dei movimenti delle masse, nei vestiti di taffetà, nell’uso del colore e quanto vediamo sulla scena, se pur estraneo alla Spagna di inizio ‘800, ha un forte valore evocativo e parla alla nostra memoria. I video mostrano poi l’esterno della fabbrica di tabacco dalla riconoscibile architettura sudamericana nei toni assolati del giallo, del bianco e dell’ocra con le  sigaraie che si muovono fluttuanti lungo la scalinata in vesti azzurrine in un’atmosfera irreale da varietà. Anche i balconcini di proscenio del Carlo Felice partecipano alla scenografia e ospitano il comando di polizia da cui Don Josè, reso ancora più naif  dall’uniforme arancio e giallo canarino, rimane folgorato da una Carmen in capelli corti che, anziché un fiore, getta il proprio foulard. Inusuale la scena dell’arresto: la scalinata si divide in due e dal fondo della scena  appaiono, oltre a Carmen, ballerine mulatte che prefigurano il night club tropicale di Lillas Pastias del secondo atto. La scena ha una forte valenza onirica  e simbolica e rende evidente l’attrazione di Josè per una sensualità esotica e altra  (fondamentali le luci e le proiezioni di onde sulle scalinate che fanno apparire e scomparire Carmen nell’ombra). Ma il “sogno” di  José viene censurato e punito dai superiori che lo prendono a pugni. Se inizialmente la produzione ha tocchi ironici e per certi versi naif, si avverte nel corso dell’opera una progressiva virata tragica marcata da un’escalation di sangue e violenza (Josè viene picchiato, Zuniga ammazzato da Josè, i doganieri vengono uccisi senza pietà, i cadaveri dei militari giustiziati dai rivoluzionari rotolano sulla scena). E non a caso all’esplosione di colore dei costumi dei primi due atti segue un simbolico prevalere del nero con tocchi di rosso.

Dalla Cuba del mambo e del jazz si passa a quella della rivoluzione: una serie di ritratti del “Che” introduce il terzo atto dei contrabbandieri-rivoluzionari, mentre il quarto è accompagnato da foto di repertorio relative ai primi giorni della rivoluzione e all’ascesa di Fidel Castro.  I video hanno portata epica e senza soluzione di continuità  si passa dall’immagine di Fidel in bianco e nero alla sua “incarnazione”. Il finale è il momento più intenso e riuscito dell’allestimento: sulla scena vuota un’impalcatura metallica ruota senza sosta e nel suo ruotare disegna virtualmente un’arena, sulla sommità del palco Escamillo/Fidel arringa con il pugno alzato la folla vista di schiena in un riuscito connubio comizio/corrida, ed è in questo contesto ad alta tensione che si consuma  il tragico epilogo con José che pugnala Carmen contro le transenne.

Lo spettacolo estremamente curato dal punto di vista del movimento scenico ha dato prova di eccellenza anche sul piano musicale. Francesco Meli crea, a partire dalla voce trascinante e ricca di comunicativa, il personaggio di Don José; del tenore genovese abbiamo sempre lodato le doti timbriche, la musicalità e la cura delle sfumature, ma in questa occasione ci ha sorpreso anche per  la sicurezza sfrontata nei passaggi drammatici risolti senza cedimenti. Se pur Sonia Ganassi abbia spesso interpretato Carmen, riteniamo che il ruolo non le sia congeniale: manca quella carica magnetica e incantatrice capace di catalizzare l’attenzione e scatenare il dramma e la voce risulta sottodimensionata per i grandi spazi del Carlo Felice. Ci è decisamente piaciuta Serena Gamberoni, che, con voce cristallina e perfettamente emessa, tratteggia una Micaela  giovane e pura; il personaggio ha tutta la freschezza della ragazza giovane, ma anche una forza e maturità inedite e il duetto fra Don José e Micaela è stato per precisione e stile uno dei momenti più riusciti della serata. Mattia Olivieri ha voce interessante per possanza e colore, inoltre la presenza forte e decisa si addice a un Escamillo/Fidel. Scenicamente disinvolte e dalla vocalità curata le due gitane decisamente giovani: la Frasquita di Daria Kovalenko e Mercédès di Marina Ogii. Fra i ruoli minori si distinguono Roberto Maietta (Dancaïre) e Manuel Pierattelli (Remendado). Un po’ sopra le righe lo Zuniga di John Paul Huckle dalla voce non sempre a fuoco. Vocalmente  gradevole il Moralés di Ricardo Crampton.

Philippe Auguin dirige con solido mestiere, tiene in pugno l’orchestra e dona al canto giusto sostegno in un riuscito equilibrio buca/palcoscenico. Ne risulta una lettura equilibrata che evita ogni inutile clangore, più incline a sottolineare gli aspetti lirici e meditativi e le finezze dello strumentale (nella migliore tradizione francese), che non a enfatizzare l’atmosfera drammatica e rovente della partitura. Di qualità la prova dell’Orchestra, come pure del Coro del Carlo Felice preparato da Pablo Assante. Anche in questa occasione si è distinto il Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice per affiatamento e impegno scenico.

Alla prima un pubblico numeroso e attento ha tributato calorosi applausi alla produzione  con meritate punte di entusiasmo per il tenore genovese.

Visto il
al Carlo Felice di Genova (GE)