La Scala, in occasione dell'Expo, riprende storici allestimenti tra cui la Carmen che inaugurò il 7 dicembre 2009: le tre recite di marzo e le sei di giugno hanno due diversi cast. La Carmen di Emma Dante è una donna meridionale, ribelle per natura come le eroine greche che inseguono libertà e amore fino alla morte. Carmen vive in un sud arido e metafisico, intriso di un cattolicesimo che coniuga fede e superstizione, religione e folklore. La scena di Richard Peduzzi rimanda a piazze dechirichiane, alti muri di mattoni rossastri oppure grigi che si aprono e si chiudono a delimitare gli spazi richiesti dal libretto, illuminati con sapienza da Dominique Bruguière in toni caldi, per lo più crepuscolari in modo da sottolineare gli spigoli. I costumi (della stessa Emma Dante) situano l'azione nel tardo Ottocento e sono particolarmente curati nei dettagli. La regista immagina una situazione per antonomasia di ogni “sud”, con la popolazione che partecipa alla vita di alcuni, le piazze piene di uomini nullafacenti con la coppola in testa seduti su sedie di legno. E il peso opprimente di una religiosità che, anziché essere via di salvezza, diventa modalità di compressione delle vite e degli animi. Una regia incisiva che talvolta però perde peso in controscene che sembrano vivere autonomamente anziché meglio spiegare o ampliare la narrazione dei fatti o dei caratteri.
Il presagio di morte aleggia nell'aria, in apertura sfila una processione che sembra un corteo funebre in una piazza popolata da gente di paese e da pulitori di tappeti. Micaëla ha i capelli scuri e legati a crocchia, è chiusa in una veste nera a mo' di sacco che non le consente neppure di tirar fuori braccia e mani ed è accompagnata da un prete in tonaca nera con cappello dall'ampia tesa e due chierichetti che reggono una croce. I soldati sfilano recando sulle spalle, invece degli zaini, dei ragazzini (l'infanzia lontana, l'innocenza perduta), che poi sgambettano via in mutande facendo allegre capriole. Sono le donne che esprimono una gioiosa vitalità, un'esuberanza piena di energia: le sigaraie escono dalla manifattura tabacchi in fila per due con un fiore in bocca. Sopra i camici da lavoro indossano una mantellina bianca che, rigirata, diventa una specie di chador che le fa assomigliare a suore oppure a donne musulmane. Poi si spogliano, rimangono in sottoveste ed entrano nella fontana al centro della piazza: il rito dell'acqua per purificare, o anche solo per dare un momento di sollievo. Carmen è accompagnata da cinque bambine vestite come lei: sarà una bambina a gettare il fiore in faccia a Don Josè. Dopo la habanera rimangono a terra le impronte bagnate dei piedi nudi delle sigaraie, che i chierichetti al seguito di Micaëla cercano di asciugare, come si sforzassero di cancellare un peccato. Durante il duetto con Don Josè, Micaëla letteralmente si trasforma, apre la cappa nera rivelando un abito candido di pizzo da sposa: la ragazza è in estasi, sogna di sposare il militare, mentre i chierichetti stendono un velo nuziale sopra di lei. Le sigaraie litigano, indemoniate, come belve feroci, si trascinano l'un l'altra tirandosi per i capelli, i soldati intervenuti a sedare la rissa le prendono a calci con violenza. I capelli, arma di seduzione e di offesa: Carmen si consegna a Don Josè offrendogli i capelli da stringere; lui la lega per i polsi a corde lunghissime che pendono dal fondo scena. Le architetture avanzano a chiudere la scena, si allungano ombre nere sul palcoscenico. Senso di nemesi, di inevitabilità fatalistica.
Escamillo arriva dall'alto, su un montacarichi, accompagnato da cinque bianche figure che vestono abiti simili a quelli della Semana santa sevillana ma hanno gonne irrigidite da stecche che possono essere mosse alla maniera delle muletas nella corrida. Mentre Escamillo canta la sua aria in piedi sui tavoli, le maschere srotolano immagini di tori scannati, il risultato pratico del toreare. Il secondo atto si chiude con le figuranti come fiere, belve feroci, pantere, donne assetate di vendetta che brandiscono coltelli e quasi si avventano sulla platea con una forza indomita e incoercibile, pregna di fatalismo.
Durante la scena con le carte, la predizione del futuro da parte di Frasquita e Mercédès, cinque donne in nero e velate (le prefiche) entrano dal fondo e piazzano delle croci bianche sopra i corpi addormentati: il presagio di morte che si accampa su tutto e su tutti e, quando si svegliano, sembrano impauriti e si addossano l'un l'altro al centro del palco. Arriva Micaëla, spettinata, invecchiata, sciatta; sulla croce che sempre l'accompagna ora c'è un crocifisso insanguinato, a cui lei si rivolge e che andrà in pezzi. Don Josè identifica sempre più Micaëla con la propria madre lontana, le quali due donne insieme costituiscono il suo lato razionale e convenzionale. Meno riuscita l'immagine di Micaëla, ormai invecchiata, al centro di un enorme letto, il letto dell'agonia e della morte, al fondo del quale si inginocchia Don Josè, figlio e fidanzato che vorrebbe una vita lineare ma la cui passione selvaggia per l'indomita Carmen spinge in altra direzione.
Per tutto il quarto atto un enorme turibolo ondeggia sopra il palcoscenico. Di lato una parete di ex-voto: gambe, braccia, seni, volti, particolari anatomici e organi al fine di propiziare la corrida e dove finisce anche il terzo braccio che spunta dal corsetto del torero. Inevitabile il tragico, fatale epilogo: Carmen si accascia fra le prefiche voltando le spalle al pubblico mentre transita il corteo dell'inizio. Il cerchio si è chiuso.
Massimo Zanetti garantisce tempi precisi, non troppo serrati, con abbandoni allargati qua e là. La tinta dominante è quella drammatica, a svantaggio della leggerezza e dei colori.
Elīna Garanča, che finalmente debutta alla Scala, è forse la Carmen oggi più nota nel mondo; la voce è unica, di colore splendido e dalla grana scura (sensualissima nella Habanera), usata con grande sapienza e accompagnata da una grande presenza scenica: i lunghi capelli biondi e la pelle chiara la rendono lunare nell'apparire ma questo, invece che stonare, appare ancora più incisivo (come dimenticare quegli occhi febbrili cerchiati di nero?). A sipario chiuso il sovrintendente Pereira annuncia un'indisposizione di Josè Cura che sostiene il ruolo in modo sorvegliato e convince nei momenti di abbandono lirico (Don Josè è l'unico protagonista a non avere un seguito, forse perchè è uomo votato a una solitudine totale che lo allontana da tutti e da tutto, fino a quando Carmen non entra nella sua vita distruggendola). Vito Priante ha voce non grande ma sicura e il suo Escamillo ha fisique du role ed è corretto seppure di impatto contenuto. Incisiva la Micaëla di Elena Mosuc dalla voce pulita e lumionosa in un ruolo che non le consente appieno di esibire la nota abilità nel registro alto (come invece Gilda da noi recensita). Bravi i comprimari, soprattutto Michal Partyka (Le Dancaïre), Alessandro Luongo (Moralès), Hanna Hipp (Frasquita) e Sofia Mchedlishvili (Mercédès), ma anche Fabrizio Paesano (Le Remendado) e Gabriele Sagona (Zuniga). Con loro Alessandra Fratelli (Une merchande d'orange), Alberto M. Rota (Un bohémien), Rémy Boissy (Lillas Pastia) e Carmine Maringola (Un guide che la regista trasforma in prete, ruolo recitato). Coro ben preparato da Bruno Casoni e impegnato in movimenti non facili insieme agli attori della compagnia Sud Costa Occidentale a cui spetta il compito di mettere in pratica quella gestualità tipica del teatro di prosa di Emma Dante.