Quando un paio d'anni fa mi capitò di assistere proprio a Catania alla prima di "Terra Matta", spettacolo scritto e diretto da Vincenzo Pirrotta, ed ispirato all'autobiografia di un personaggio squisitamente naïf - Vincenzo Rabito - scoprivo un vero, grande uomo di teatro, e non solo un semplice attore, seppur bravissimo, come l'avevo conosciuto in precedenza. Erano due ore di spettacolo travolgente, portato avanti senza alcuna pausa - se non per l'intervento di qualche strumento musicale - sostenute dallo stesso Pirrotta in veste di narratore in prima persona d'una esistenza «bassa» ma affascinante di un uomo qualunque, che aveva attraversato tutto il Novecento italiano subendone in prima persona gli accadimenti storici e sociali. Ma il carnet di Pirrotta comprende anche molte altre rielaborazioni testuali e tante regie consacrate dal successo, oltre a quella; e ha dunque fatto bene il Teatro Massimo Bellini di Catania a coinvolgerlo quale regista della "Carmen" di Bizet - opera che qui mancava da tredici anni - destinata ad inaugurare a metà gennaio la nuova Stagione 2012. Però, come è naturale attendersi, il passaggio dai palcoscenici dei teatro di prosa a quelli d'opera presenta qualche ostacolo, e cela pure qualche fatale insidia. Nel complesso, diciamolo subito, la "Carmen" ideata da Pirrotta viaggia spedita e su binari sicuri, sottostando bene alla massima partitura bizetiana. Posto che la scenografia di Sebastiana di Gesù si riduce essenzialmente a immensi teli bianchi illuminati da accorti giochi di luci, con qualche avveduto espediente scenico (vedi i tavoli della taverna di Lillas Pastia che, impilati alti uno sull'altro di traverso, citano efficacemente le pareti esterne dell'arena sivigliana), lasciando tutto la spazio libero all'azione, diveniva imprescindibile per il regista siciliano mettere in campo una recitazione sempre accurata e il più possibile verosimile: traguardo conseguito attraverso interpreti che hanno saputo mostrarsi validi cantanti ed efficaci attori allo stesso tempo. Il racconto teatrale si sviluppa così fluido e vivido, accompagnando e sottolineando a perfezione la musica di Bizet, e stringendo lo spettatore nel viluppo delle passioni dei protagonisti. Peccato solo che, come un cuoco che copra di troppa glassa una torta altrimenti perfetta, Pirrotta abbia voluto strafare con un effettaccio scenico che molto farà discutere. Mi spiego subito. «Quando don Josè passa dalla legalità all'illegalità - sono parole dello stesso Pirrotta - parlare di contrabbandieri ci sembrava troppo poco. E allora nell'immaginario dello spettacolo i contrabbandieri diventano affiliati alla mafia»: ed infatti Josè viene mostrato, subito dopo aver smesso la divisa, consacrare con il sangue un patto di sapore mafioso con i suoi nuovi compari. E questo può andare anche bene: magari qualcosa del genere si usava un tempo, chissà, anche tra le selvagge montagne dell'Andalusia. Ma proporre in primo piano, all'inizio del terzo atto, lo strangolamento di un ragazzino poi subito sciolto in una cisterna d'acido (una delle azioni più turpi fatte da Cosa Nostra) mi sembra cosa veramente di pessimo gusto e rivoltante, oltre che decisamente inutile - se non dannosa - nei confronti dell'azione. Accenno, per finire, ai costumi di taglio tradizionale di Françoise Raybaud, giustamente pertinenti allo spirito dello spettacolo, cito le pleonastiche mosse coreografiche di Giovanna Velardi che nulla aggiungevano al resto, e considero chiuso l'argomento.
Parliamo piuttosto della musica, cominciando da chi stava sul podio, e cioè da Will Humburg: il direttore artistico del Massimo Bellini si è confermato concertatore abile e sicuro, la cui grande esperienza permette di concepire globalmente la visione d'uno spettacolo mettendone in luce ogni valore drammatico e musicale. Così la sua conduzione sortisce una lettura complessa e ricca di sfumature, aliena da calligrafismi, mossa da una concezione dinamica e piena di vitalità, con esatto controllo dei tempi e carica di tanti mutevoli colori che risplendono anche negli incisi strumentali. Buona la prestazione dell'orchestra di casa; spiace solo si sia preferita ancora una volta la tradizionale edizione Alkor/Kassel (versione Guiraud), e non quella critica Oeser con i dialoghi parlati.
La giovane e seducente mezzosoprano israelo-americano Rinat Shaham impersonava Carmen e convinceva ognuno: tecnica salda e piena bellezza della voce, omogenea in tutta la gamma, insieme al fascino che promana dalla sua figura e dal suo portamento, portavano in scena una vera 'femme fatale'. Di quelle però che non contano sul prorompere del seno o sul lascivo ancheggiare, ma prendono all'amo un uomo solo con uno sguardo, un ammiccamento malizioso; contando su quella sottile e invincibile attrazione che promana dalla consapevolezza di essere desiderabile ed unica. Femmine che possono magari lasciarsi conquistare, ma mai domare né tantomeno farsi veramente possedere, mai per sempre e mai di un solo amante. In confronto, lo José del russo Vsevolod Grivnov faceva un pochino la figura dello scolaretto, e non tanto per l'incertezza scenica, quanto per un'emissione complessivamente modesta, senza carattere né potenza. Scialbo nell'espressione e poco virile nell'accento non solo nei lirici duetti con Micaela, ma anche quando dovrebbe essere sopraffatto - a contatto con un fior fiore di donna, o di fronte ad un pericoloso rivale - da una bella tempesta ormonale o da un'impennata di adrenalina. Assai più convincente era la Micaela di Tatiana Lisnic, soprano moldava dalla voce limpida ed estesa, dotata di grande musicalità, che sapeva descrivere benissimo sulla scena i turbamenti e le esitazioni emotive di una tenera adolescente. Il basso-baritono Homero Pérez-Miranda (nato a Cuba, all'Avana, ma formatosi ed ormai di casa in Cile) abbozzava un Escamillo cinico e ironico nello sguardo, un tipo po' beffardo e sbruffone, ma decisamente trascinante; saldo nell'esibire una vocalità molto elegante nel fraseggio, sontuosa nel timbro ed ampia nell'estensione al punto di permettergli escursioni di repertorio che vanno dai ruoli pucciniani di Scarpia e Sharpless a quelli verdiani di Attila e Silva. Ben calati nei rispettivi ruoli Giuseppe Esposito e Michele Mauro, due contrabbandieri - Dancairo e Remendado - dai tratti simpatici, entrambi corpulenti ed entrambi molto bravi. Simmetricamente, altrettanto persuasiva appariva la coppia di zingare costituita da Piera Bivona (Frasquita) e Loredana Megna (Mercedes). Salvo Todaro e Jorge Pérez impersonavano con efficacia rispettivamente il tenente Zuniga e il brigadiere Morales.
Qualche insolita ruvidità e qualche occasionale approssimazione m'è parso avvertire nel coro del Massimo diretto da Tiziana Carlini; devo però testimoniare che in apertura del quarto atto è stato costretto a cantare passeggiando e gettando per aria delle arance. Effetto molto riuscito scenicamente, senza dubbio, ma le tre cose non paiono facili da far contemporaneamente. Specialmente la più importante, direi, cioè cantare con proprietà. Il coro dei bambini - dal pomposo nome «Gaudeamus Igitur Concentus» e preparato da Elisa Poidomani - se l'è cavata senza infamia ma anche senza lode.
La 'prima' dell'opera, affollata di eleganti toilettes delle signore, è stata accompagnata da qualche inevitabile contestazione rivolta alla regia, ma nel complesso è stata accolta bene dal pubblico catanese che ha molto applaudito gli interpreti.
Lirica
CARMEN
CARMEN, SANGUE E PASSIONE
Visto il
al
Massimo Bellini
di Catania
(CT)