Lirica
CARMEN

Cupa Carmen

Cupa Carmen

Carmen è il Regno della coreografia e della scenografia, dell’ambiente su cui disegnare movimenti e sogni. È sempre stato un riferimento di sentimenti potenti e di evocazioni anche ancestrali, sommovimenti emozionali in forma tellurica, attraverso la prosperità dell'invenzione musicale, una melodia sensuale ed avvolgente, e di un folklore tersicoreo di una Spagna, certo, tutta idealizzata, anzi proprio come sarebbe potuta essere stata immortalata in una cartolina francese di fine '800, ma forse così forte proprio grazie a questa sua inautenticità spinta, che grazie al tasso oleografico concede un grado sorprendente di potenza espressiva e simbolica.

Lo stesso George Bizet, del resto, quando finalmente ruppe la tradizione coeva dell'Opéra-Comique borghese, con questo soggetto e questa musica immorale e controcorrente, sentì di aver valicato il Rubicone, e nessuno meglio di Nietzsche potè avvalorarne la portata, giudicandola “l'amore come destino, come un destino cinico, innocente, crudele, l'amore esatto nella sua forma natura. Io non conosco altro esempio dove la tragica ironia che costituisce il nocciolo dell'amore sia stata espressa con tale severità, con formula così terribile come nell'ultimo grido di José: Oui, c'est moi qui l'a tuée, Carmen, ma Carmen adorée...”; e tale fu lo strappo, che l'aspettativa borghese del teatro al numero 5 di Rue Favart, dove naturalmente debuttò, necesariamente ebbe la stessa portata reazionaria e contraria, seguita invece dallo straripante successo solo dopo qualche tempo, ma già troppo tardi per non causare indirettamente la morte dell'Autore.

Certo, resta lecito cercarne anche interpretazioni che accendano luci diverse, evidenziando i tratti più o meno visibili di una zingara-maga incupita dall'aver intravisto il suo destino, oppure intimista fino all'annullamento di alcune parole d'ordine, come ad esempio, una a caso, Eros.

Questa Carmen di Micha van Hoecke e di Alain Guingal, coerentemente nella regia come nella esecuzione musicale, è però trasformata soprattutto, se non soltanto, in un senso di ineluttabilità: amore e morte non giocano a fare Eros e Thanatos, ma hanno quasi un appuntamento predefinito, anziché provocarsi a vicenda ed esplodere l'uno nelle braccia del'altro. E Carmen sembra avere scritta negli occhi sempre già la fine, come se avesse sempre nelle mani il copione aperto soltanto sull'ultima pagina, e stesse solo aspettando di arrivarci.

Soltanto per qualche minuto, coincidente l'entrata di Escamillo, tutto sembra volersi vestire del rosso e del nero di Eros e Thanatos, ma in un complesso disegnato in maniera fin troppo didascalica, stavolta esclusivamente potente, e sempre in chiave soprattutto cupa, con una teatralità dei movimeni di scena che meritava forse più una allocazione verdiana, e stride molto con il fatto che invece Carmen aveva rinunciato alla potenza perfino nello scandaloso “Prends garde à toi!”, e ad ogni tensione erotica (semplicemente inesistente), ovvero sfrontatezza, spregiudicatezza, superbia o maleducazione, come se quel passaggio di tensione delle 5 note che annunciano e precedono “La fleur que tu m'avais jetée” incombesse su molte altre scene, come una tragedia sottesa.
Le cose migliori viste e sentite si giocano sulle voci di Micaëla (Francesca Sassu) e Frasquita (Arianna Vendittelli) tenute lontane dal discorso interpretativo (laddove le principali di Carmen Adriana Topciu, Andrea Carè e Vitaliy Bilyy invece ne restano intrappolate); sulle voci bianche dirette da Stefania Rinaldi, e su alcune scene curate da Nicola Rubertelli.

Suggestivo il disegno sul velo dietro al sipario, e gli elementi della scenografia di chiara derivazione picassiani: nella taverna di Lillas Pastia le immagini sullo sfondo sono catturate dalle incisioni a bulino di Pablo Picasso del ciclo Carmen: sensuali, piene di sentimento, chiaramente ispirate dall'arte primitiva, nelle quali pochi tratti disegnano volti umani, costumi andalusi e teste di toro.
Inevitabile il teatro gremito, il nome basta per richiamare il pieno, ed una nota a margine da non sottovalutare, ovvero la buona pronuncia della lingua francese da parte di tutti i cantanti. Non molto, non abbastanza, per quello che dovrebbe essere il simbolo stesso dei temi del destino e della morte fusi fra elementi arabi e gitani, fra passioni umane ancestrali e raffinato lirismo, in un concetto che si racchiude in toto nello spirito del duende, tipicamente radicato nel territorio di cui Carmen calpesta le pietre spesso roventi: per toccarne il cuore e trasformarlo in movimento e canto, andrebbe riletto Federico García Lorca, che in «Teoria y juego del duende» spiega quale sia questo spirito andaluso, questo potere misterioso "che tutti sentono e che nessun filosofo spiega", con parole che nono dissipano certo i dubbi su questa cupa Carmen, anzi...: “I grandi artisti della Spagna meridionale, gitani o flamenchi, sia che cantino, ballino o suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza l'arrivo del duende, che è insieme angelo e musa [...] Il duende di cui parlo - misterioso e trasalito - discende da quell’allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi. […] In tutti i paesi la morte è un fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio.

Visto il 09-03-2011
al San Carlo di Napoli (NA)