Firenze, teatro Comunale, “Carmen” di Georges Bizet
CARMEN NELLA SPAGNA A META'
Con Carmen Bizet raggiunse la piena maturità musicale, sebbene l'opera, al suo apparire, fu accusata di wagnerismo e destò scandalo per l'immoralità del soggetto, considerato anche che la morte della protagonista, che contravveniva alla regola del lieto fine (caratteristica obbligata dell'opéra-comique), aveva sconcertato critica, spettatori ed opinione pubblica. Bizet ne restò sconvolto e si ritirò a Bougival, dove morì pochi giorni dopo, forse suicida. Ma le cose mutarono rapidamente e Carmen venne presto esaltata come l'opera che anticipò il verismo, introducendo nell'opera lirica il realismo psicologico già presente nella narrativa francese con Balzac, Stendhal, Mérimée ed altri. Tra i suoi primi sostenitori Nietzsche, che contrappose Bizet, a suo dire rappresentante di una musica solare e mediterranea, autore di un “ritorno alla natura, alla salute, alla gaiezza, alla giovinezza, alla virtù”, a Wagner, che invece aveva “riempito di fantasmi” l'Europa.
Al Maggio è andata in scena la versione originale del 1875 con i dialoghi parlati (in seguito adattati a recitativi strumentali da Ernest Guiraud, come viene oggi maggiormente rappresentata). Il regista Carlos Saura opera una despagnolizzazione a metà, dove a una scena astratta (Laura Martinez) si contrappongono costumi tradizionali (Pedro Moreno). Nel primo atto elementi rettangolari agganciati a tiranti a vista sono stinti da un pallido sole dal giallo-crema all'aranciato; come ombre cinesi le comparse e i cantanti si muovono dietro i pannelli, amplificando e moltiplicando le presenze, soprattutto sfaticate sigaraie. Nel secondo atto (che si apre con due bailaoras ingombrate dai vestiti, uno bianco e uno nero, con strascichi extralong) le quinte alte definiscono lo spazio di un tablao flamenco; nel terzo sono angolate e inclinate a suggerire gli spuntoni delle rocce, mentre nel quarto perimetrano un emiciclo, l'arena della corrida. Invece i costumi sono rigorosamente spagnoli, di varie epoche, con ventagli, scialli e cappe. Scontati: Carmen mora e ricciuta vestita di rosso, Micaela bionda e trecciuta vestita di azzurro, le sigaraie nei toni dell'avorio, i briganti scuri. Il “povero” Escamillo ha solo un abito e un paio di scarpette a disposizione, che indossa sia nella taverna, sia in mezzo alle montagne, sia per la corrida.
La scelta non è vincente perchè non è supportata da una forte idea registica, risultando una sequela di banalità e routine. Le masse si muovono per entrare ed uscire e separarsi in due per l'ingresso di qualcuno, rimanendo sempre frontali (un po' come nell'edizione di Spoleto di oltre dieci anni fa). Non c'è mai atmosfera nè pathos, quell'intensità dell'amore-passione distruttiva ed inevitabile che è l'essenza della storia e che la musica rende così perfettamente. Insomma una regia convenzionale “povera” di idee. E un dubbio: ma dov'erano le coreografie dei tre coreografi indicati?
Nel cast ha brillato Ildebrando D'Arcangelo, un Escamillo coi capelli scuri e imbrillantinati, altero, vanitoso, fiero della propria bellezza, abilità e popolarità, che si muove con misura e suprema eleganza, da vero padrone della scena. La voce è in ottima forma, scura e brunita, mai forzata, piena di sfumature che esprimono al meglio i sentimenti del personaggio, già frequentato con successo a Roma e Torino, da ultimo a Londra a cavallo (che fatica deve essere stato cantare in quella situazione).
Ottima anche Inva Mula, una Micaela poco zuccherosa, decisa e con voce sontuosa usata alla perfezione, al punto da rubare applausi alla protagonista.
Marcelo Àlvarez è parso in difficoltà all'inizio, ma già nel secondo atto si riprende e riesce a dare il meglio, rendendo con credibilità i sentimenti di Don Josè. Il timbro è scuro e pieno, gli acuti sicuri, tuttavia ha trasmesso poco coinvolgimento emotivo, anche penalizzato dalla regia, che nel finale lo fa semplicemente orbitare intorno a Carmen, strattonandola per un braccio.
Julia Gertseva è l'unica del cast che era anche a Valencia, teatro coproduttore dello spettacolo: ha bella voce potente ma non ha abbastanza colori per rendere appieno le tante sfumature del personaggio: Carmen fisicamente e scenicamente presente, alta, statuaria e imponente, che però la regia “congela” in pochi e convenzionali gesti (scoprire in continuazione la gamba sinistra, baciare tutti). Nell'attesa habanera la cantante non ha brillato particolarmente ma è cresciuta nel corso dell'esecuzione.
Adeguati i numerosi ruoli di contorno, soprattutto Alessandro Battiato (Le Dancaire), Carlo Bosi (Le Remendado), Maurizio Lo Piccolo (Zuniga) e Gemma Bertagnolli (Frasquita), la quale ha dimostrato di possedere voce non solo per il repertorio barocco. Con loro Enrico Marrucci (Moralès), Leonardo Melani (Andrès), Bracha Kol (Mercédès).
Zubin Mehta ha ben diretto l'Orchestra del Maggio sottolineando i momenti lirici e quelli veristi, sfrondando da eccessi e spingendo sulle venature luttuose e sulla follia latente che è in tutta la partitura. L'inizio è con arcate frettolose, iperveloci, seguite da movimenti allungati su un potenziamento delle percussioni. Estremo è il lirismo della sinfonia del terzo atto, dove risulta perfetto il successivo ingresso degli strumenti, dopo l'inizio con flauto e arpa. Tira via veloce nelle danze esotiche ma cesella alcuni momenti ottenendo emissioni curatissime. Riesce, con i soliti gesti decisi e calibrati, a fondere la buca e un palco affollatissimo.
Il Coro era ben preparato da Piero Monti, come i Ragazzi Cantori di Firenze da Marisol Carballo (guidati da una bambina, una delle “Donne contro”).
Teatro tutto esaurito: il pubblico ha applaudito a lungo ed in modo deciso, soprattutto all'indirizzo di Zubin Mehta, trionfatore della serata; nel cast ampi consensi per D'Arcangelo e Inva Mula e, alla fine, anche per Àlvarez.
Visto a Firenze, teatro Comunale, l'11 maggio 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Maggio Musicale Fiorentino
di Firenze
(FI)