Danza
CARMEN

LA CARMEN DI CARLOS SAURA

LA CARMEN DI CARLOS SAURA

Negli anni 80, supportato dal lungimirante produttore cinematografico Emiliano Piedra (figura all’antica: un po’ mecenate, un po’ affarista) e con la collaborazione dei ballerini Antonio Gades e Cristina Hoyos, Carlos Saura diresse la cosiddetta ‘Trilogia Flamenca’ formata dai films  “Bodas de sangre” (1981, ispirato a Garcia Lorca), “Carmen” (1983, da Mérimée e Bizet), “El Amor Brujo” (1986, tratto dall’omonomo balletto di De Falla), fondendo in ognuno d’essi, in maniera ammirevole, cinema musica e danza. Piedra e Saura erano amici e coetanei dato che il primo, scomparso nel 1991, era nato nel 1931, il secondo nel 1932;  insieme contribuirono, ognuno secondo il proprio ruolo, a dar vita a tre episodi artistici memorabili, più volte premiati dalle giurie di mezzo mondo. Tanto e perdurante successo – le cassette VHS un tempo, i DVD oggi di quei spettacoli non sono mai usciti di catalogo – ha fatto sì che trent’anni dopo venisse commissionata a Saura la regia della “Carmen” operistica andata in scena nel 2007 al Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, approdata poi l’anno seguente al 71° Maggio Musicale Fiorentino sotto la bacchetta di Zubin Mehta. Per riproporla a Trieste – Saura ormai ottantenne ha declinato l’invito – è intervenuta la nostra brava Elisabetta Brusa; la quale in realtà è andata un po’ più in là, riproponendo sì integralmente l’impostazione minimalistica con la quale Saura intendeva sottrarre il lavoro di Bizet ad una collocazione agiografica e folklorica, ma in pratica riscrivendo molte situazioni. Un fatto ben evidente a chi ricorda lo spettacolo proposto in quel di Firenze. E sotto questo punto di vista le semplicissime scenografie di Laura Martinez, fatte solo di grandi pannelli mobili ravvivati in trasparenza da giochi d’ombre e dalle evocative luci di José Louis Lòpez Linares (qui riprese da Francisco Belda), hanno sofferto non poco della trasposizione sul palcoscenico del Verdi di Trieste; spazio non piccolo certo, ma pur sempre meno ampio di quello del vecchio Comunale fiorentino. Lo si avvertiva soprattutto nella difficoltà di collocare le masse corali in spazi divenuti troppo angusti, con conseguente fastidiosa staticità dell’azione; mentre rimane nuovamente irrisolto il nodo della palese antinomia – già evidenziata da molta critica cinque anni fa - tra scelte registiche e scenografiche volte alla ricerca di un certo minimalismo narrativo da un lato, ed i costumi affidati all’estro di Pedro Moreno dall’altro. Abiti accuratissimi, e molto belli in verità (in particolare quelli dei protagonisti), che paiono usciti dalle foto dei viaggiatori d’epoca; ma in questo contesto abbastanza fuori luogo per il gusto calligrafico del loro disegno. In parole povere, l’intenzione iniziale di non distrarre lo spettatore con una Spagna da cartolina, e sviarlo con i soliti orpelli folkloristici, inciampa proprio qui, in una rappresentazione visiva da presepe andaluso.
Nel quale poi – a voler essere pignoli - gli elmetti dei soldati chiamati a sedare la rissa sono del tutto fuori luogo, essendo arnese da combattimento, non in ancora uso all’epoca; e comunque non adatto a militi aqquartierati in città. Quanto alle smorte coreografie di Goyo Montero, interpretate da cinque ballerini di seconda fila nell’accampamento dei contrabbandieri, meglio stendere un velo pietoso.
Luciana D’Intino, che con queste recite triestine festeggiava trent’anni di solida carriera, ha riproposto con esiti felici la sua Carmen: considerato dal punto di vista scenico, il suo personaggio è di una fissità matronale, specie nella scena della seduzione; ma dal punto di vista puramente vocale, rimane per tutti un vero appagamento. Forte di uno strumento che ancora non avverte usura – ed anzi pare oggi dominato con maggiore accortezza – la D’Intino è una vera mezzosoprano, di grande ampiezza ed estensione, solida e timbrata nei bassi e ferma e luminosa negli acuti. Col lei il canto scorre morbido, caldo, sensuale, flessuoso, senza cercare di proposito forti contrasti di colore: eppure le riesce lo stesso di evocarli nell’immaginario dell’ascoltatore, attraverso una bella tavolozza di espressioni naturali ed una accortissima condotta vocale. Brava in ogni momento, eccezionale lo è stata a mio parere nella scena delle carte (un «La mort! J’ai bien lu!» da brivido) così come nel drammaticissimo finale. (Molto struggente, a proposito, il gesto col quale Josè piangendo rimette a Carmen l’anello al dito, dopo averla uccisa…emozionante trovata registica, senza dubbio).
Quanto appunto al nostro Don Josè, competeva al tenore Andrea Carè dare vita ad una figura credibilmente giovanile, baldanzosa, persino irresponsabile: come capita proprio ai militari ancora inesperti della vita, tutti muscoli pulsanti e ormoni alle stelle, ma poco cervello. Credibilissimo dragone del Reggimento d’Almanza, insomma, sempre perfetto in scena anche perché la voce c’è, e tanta, bella, ampia, lucente: una voce decisamente ruffiana, però non sempre adoperata al meglio (come nell’Aria del fiore, assai commovente nel gesto ma tecnicamente così così..), anche se l’applauso è stato più che meritato; vien voglia però di metterlo sotto di nuovo con lo studio, a far fruttare come si deve quel tanto Ben di Dio che ha tra le mani.
Abbastanza positivo anche il debutto come Micaëla della giovane soprano Serena Gamberoni: dal punto di vista tecnico, nessuna menda, salvo un fastidioso vibratino che si fa evidente nella salita all’acuto; la voce è abbastanza calda, ferma ed intonatissima, sempre luminosa; il personaggio dipanato bene, un po’ ieratico come da istruzioni di regia, particolarmente riuscito nel duetto con Josè e toccante nel «Je dis que rien…»; ma io pretenderei da lei qualche trepidazione di più, tramite un maggiore abbandono alla intima ingenuità del personaggio. 
Note meno felici riportiamo ahimè per Lucio Gallo, mostratosi in difficoltà con un ruolo – quello di Escamillo – che gli è divenuto ora pesante, se non addirittura ostico,  per la palese difficoltà di tenere il fiato, per qualche intonazione imperfetta, per la povertà di sfumature, per la mancanza generale di smalto. Non se n’è però stranamente accorto l’indulgente pubblico triestino, che l’ha comunque gratificato del suo vivo apprezzamento anche per un’indubbia aderenza fisica al fascinoso personaggio del toreador.
Capita di raro incontrare parti di fianco tutte ben scelte e tutte così ben curate come in questo caso, e mi riferisco sia al Zuniga di Federico Benetti, che al Moralès di Nicolò Ceriani; nonché alle zingare delle bravissime Yukiko Aragaki e Cristina Damian (Frasquita e Mercédès), ed ai convincenti contrabbandieri di Gianluca Sorrentino e Dario Giogelé (le Remendado e le Dancaïre). Un lavoro di squadra, il loro, assolutamente eccellente ed ammirevole, raro invero a trovarsi altrove.
Non mi ha invece entusiasmato la direzione di Donato Renzetti, benché non lo si possa accusare di particolari défaillances: equilibrato rapporto con la scena, strumentale nitido – brava in questo l’Orchestra del Verdi – buona morbidezza ed eleganza anche negli intermezzi. Ma nell’insieme, tutto scorreva via in una placida routine d’alto livello che, nella sua indifferenza emotiva e nella piattezza dei colori,  mortifica una partitura smagliante come questa. A proposito, per i più esperti la versione adottata è stata quella tradizionale dell’Editore Chaudens, con dialoghi ridotti all’osso. L’edizione critica Oeser resta sempre relegata nei nostri sogni.
Sempre all’altezza del compito il peritissimo Coro del Verdi, diretto da Paolo Vero, supportato dalle voci bianche dei Piccoli Cantori triestini ben preparati da Cristina Semeraro.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)