La Carmen di Calixto Bieito, coprodotta dai teatri dell’opera di Barcellona, Palermo, Venezia e Torino, è anticonvenzionale nel senso buono in quanto va all’essenza della drammaturgia musicale di Bizet che, depurata di bozzettismo e “colore locale”, rifulge nella sua originalità e verità fuori dal tempo e dallo spazio.
La vicenda si svolge in un immenso spazio vuoto e nero, spesso brumoso, in cui gli elementi scenici sono quasi inesistenti: un pennone dove sventola la bandiera spagnola, una cabina del telefono, vecchie Mercedes scassate. L’ambiente immaginato da Bieito non è un’Andalusia da cartolina, quanto una terra di frontiera colta nella sua desolazione, popolata di militari, zingari, contrabbandieri e puttane. Un mondo collocato ai margini geografici e sociali dove basta un nulla per scatenare una violenza latente e compressa.
Potrebbe essere una Spagna franchista, militare e maschilista, ma non importa definirne la datazione storica: sulla scena assistiamo a qualcosa di più universale e atavico (amore /sangue/morte) che va alle radici del mito di Carmen.
In apertura un militare in mitra e mutande corre fino allo sfinimento intorno all’alzabandiera, il suo correre senza sosta, oltre ad alludere a una punizione militare, traccia nello spazio un'ellisse che definisce una situazione senza scampo e che anticipa l’arena disegnata col gesso sul pavimento dove si sfideranno alla morte Carmen e José.
Bieito gioca con il nostro immaginario di Carmen e per estensione della Spagna, di cui evoca e al tempo stesso nega le immagini, come la sagoma del toro (ovvero la pubblicità onnipresente di un noto liquore) sospeso sopra l’accampamento di vecchie Mercedes degli zingari (altra immagine fulminante di verità contemporanea) che poi si schianterà a terra fatto a pezzi dalle maestranze nel preludio del quarto atto.
Sotto la sagoma del toro un giovane danza nudo nella notte, può voler dire tutto e nulla (un rituale che precede la corrida, un simbolo pagano, l’innocenza perduta), ma rimane soprattutto un momento di teatro e poesia e non c’è da gridare allo scandalo.
L’arena è fuori campo, riflessa nello sguardo della folla che si accalca rivolta verso la platea: i toreri e tutta la loro paccottiglia sono sedimentati nel nostro immaginario, inutile “rappresentarli”. Quello che importa è mettere in scena l’autodistruzione fatale generata dalla passione. Tutta l’opera sembra correre all’impazzata verso il finale dove, in un corpo a corpo fisico quanto psicologico che trasuda sesso, amore, rivolta, disperazione (ma anche dolcezza ), Josè sgozzerà Carmen dentro al “ring” dopo avere ricevuto indietro l’anello.
La giovane Anita Rachvelishvili fu scelta da Barenboim per la Carmen scaligera un paio d’anni fa e da allora ha riproposto il ruolo sulle principali scene internazionali, affinandone disinvoltura e emissione e la sua Carmen coi lunghi capelli neri dai riccioli selvaggi è fisica senza essere volgare. La voce importante, dalle suggestive screziature scure, colpisce l’ascoltatore e riempie la sala, ma il ruolo vorrebbe una sensualità più insinuante e meno prevedibile; Habanera e Seguidilla difettano di sfumature, meglio le pagine più drammatiche dove s’impone la bellezza di una voce piena.
All’inizio Maksim Aksenov ci ha lasciato perplessi, poco luminosa la voce e non abbastanza fluida l’emissione, ma poi il personaggio istintivo e “dannato” dallo sguardo annebbiato e confuso ci ha conquistato, come il canto sempre più rovente e appassionato che trova nella romanza del fiore e nella scena finale con Carmen il suo apice.
In questo contesto il personaggio di Micaela è meno ingenuo del solito (era ora!) e si apprezza l’atteggiamento disinvolto per non dire impudente. Alessandra Marianelli ha volto e canto angelici e oltre alla presenza scenica si apprezza la bellezza di una voce lirica dalla linea curata, anche se un po’ leggera per la parte.
L’Escamillo di Mark. S. Doss rimane figura marginale, la voce è autorevole e il registro centrale suggestivo, ma si percepisce un’estraneità stilistica di fondo e nel passaggio superiore il canto risulta disomogeneo.
Scenicamente disinvolte e intonate le amiche di Carmen, la Frasquita di Arianna Vendittelli e la Mercedes di Annalisa Stroppa. Incisivo il brigadiere Morales di Federico Longhi, corretto lo Zuniga di Francesco Musinu. Dei due contrabbandieri Paolo Maria Orecchia è Dancaire, Antonio Feltracco il Remendado. Bravo Bob Marchese, attore che interpreta Lillas Pastias (vestito di bianco con tanto di panama e fazzoletto rosso: un po’ Hemingway, un po’ magnaccia ) a cui sono affidate, in una sorta di prologo, le parole chiave dell’opera: amor y muerte.
Nessun indugio lirico nella serrata direzione di Yutaka Sado, teso a sottolineare con diversi spessori sonori la concatenazione drammatica e i piani dinamici con cui è costruita la partitura. L’opera corre tutta d’un fiato verso l’inevitabile tragedia e sempre alta è la tensione impressa all’orchestra, una Carmen moderna e nervosa, talvolta dissonante, che guarda in avanti verso il repertorio sinfonico novecentesco. Ne giovano soprattutto le pagine orchestrali più note (e spesso abusate) che, affrontate da un’altra prospettiva, ritrovano la loro originale audacia.
Straordinario il coro del Regio, preparato da Claudio Fenoglio, per avere saputo coniugare precisione vocale con un incessante quanto curatissimo movimento scenico.
Caloroso successo per tutti, in particolare per la protagonista, con punte di entusiasmo per coro e orchestra. Ricordiamo che la regia dell’allestimento è stata insignita l’anno scorso del prestigioso Premio Abbiati.