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Al teatro Giuseppe Di Stefano di Trapani è finalmente entrata Carmen, ed anche in maniera prorompente, grazie al nuovo allestimento dell’Ente lirico trapanese Luglio Musicale Trapanese per la stagione appena cominciata, sotto la guida Direttore Artistico Giovanni De Santis.
Al teatro Giuseppe Di Stefano, il noto sito en plein air trapanese, è finalmente entrata Carmen, ed anche in maniera prorompente, grazie al nuovo allestimento del Luglio Musicale Trapanese per la stagione appena cominciata, sotto la guida Direttore Artistico Giovanni De Santis e del Responsabile della produzione lirica Andrea Certa.
Dopo L’Elisir d’amore nell’isola dei pirati e La Traviata in versione burlesque, anche la regina gitana della passione viene affrontata con spirito originale, e converrà anzitutto quindi soffermarsi su questo aspetto.
Quando si opera una trasposizione così decisa, e prescindendo del tutto dai gusti che ci si forma per inclinazione od ortodossia, va anzitutto verificata la presenza di alcuni aspetti: nell’ordine che viene naturale durante la notte stellata trapanese, essi sono stati la coerenza interna, la conservazione dei contenuti e la capacità di dire anche qualcosa di nuovo (o di dirlo in modo nuovo), prima ancora dell’impatto con la resa artistica.
E diciamo subito che ognuno di questi aspetti porta a valutare il risultato di questa Carmen come una piena riuscita.
Glam Carmen
Sul fondale campeggia un rossetto su labbra lucide, e la scena si manifesta subito come un musical a metà fra Grease e West Side Story. Anzi, meglio: pur evocando nelle note di regia atmosfere mediterranee, nella mente riecheggiano scenari che per collegamenti e dettagli possono trasferirci decisamente sul Sunset strip, quel miglio e mezzo tra Hollywood e Beverly Hills in cui per diverse epoche si è fatta la storia di alcuni generi musicali, in questo caso fermandosi a cavallo tra il glam rock e la fine degli anni ‘80.
Radio-registratori portatili, una Volkswagen Golf primo modello onnipresente e molto importante per la scenografia e le azioni coreografiche, duri e pupe, angeli con la pistola e camicioni californiani sono alcuni degli elementi (le scene sono di Aurelio Colombo) che si distinguono per linearità e chiarezza di una narrazione che grazie all’ottima regia di Nicola Berloffa scopriamo pensata nei minimi schemi, dal momento che sia nel gesto dell’attore, sia nel movimento coreografico (di Marta Negrini) ognuno fa qualcosa di sensato, in ogni angolo, aiutando la lettura d’insieme e di dettaglio.
La gestione dei movimenti e degli spazi, così come il modo di porgere la musica e l’azione, trasformano dunque l’opera in una rappresentazione assai vicina a un musical di Broadway, e lo diciamo come un complimento, poiché questo avviene senza perdere nessuno degli elementi essenziali. Resta intatta perciò la dicotomia della sensualità contro il machismo, così come l’anelito alla forma di libertà più estrema contrapposto alle gabbie delle passioni, avendo però saputo esportare uno spirito e i suoi contenuti traducendolo in un diverso linguaggio comunicativo e narrativo.
Fotogrammi di un film
Un’idea dalla complessità notevole, per la quale sarebbe bastato un solo elemento diacronico o non allineato per far cadere un castello, soprattutto, come vedremo, in un finale giocato su più livelli. Ed invece la regia e la bravura delle parti ha tenuto insieme tutto, andando probabilmente anche al di là delle lecite aspettative legate ai consueti meccanismi tecnici e produttivi di un teatro di tradizione, permettendosi oltre al cast, di integrare su questa unica traiettoria 64 musicisti, 51 coristi e 10 ballerini.
Proviamo a lasciare qualche punto di colore sulla tela della memoria di questo film appena finito di guardare in TV, e troviamo momenti di grande resa artistica, ad esempio, nel coro dei bambini Nous marchons la tête haute associato al ballerino-Popeye e ad una super-efficace break dance che in quel contesto ormai era praticamente obbligatoria, ed anzi attesa; costumi (di Edoardo Russo) che sanno parlare da soli, come la gonna corta ocra e verde da brava ragazza di Micaela; Lilas Pastia che sulla Sunset strip diventa un locale fumoso con divani in pelle, dove perdersi anche in balli di gruppo; un Escamillo che ha sì il bolero tradizionale da torero, però lo porta allo stesso modo in cui lo indossava Michael Jackson, mentre la compagnia di ragazze si trasforma in groupies; un colpo di scena che vedrà aumentare sul palcoscenico il numero delle vittime rispetto a quelle previste originariamente (povero Zuniga!).
Voix et couleurs
Raffaella Lupinacci è alla sua prima Carmen, e mostra di poterla certamente affrontare: forse a causa della particolarità di questo personaggio, elemento sempre da tenere a mente, la sua apparizione risulta poco sensuale nella Habanera, e poi invece molto in linea col contesto dell’ambientazione; una timbrica scura, circondata dalle cattive compagnie che sostiene con voce perentoria.
Micaëla, personaggio cui sono affidate straordinarie parti liriche, viene affidata ad un’ottima Larissa Alice Wissel, cantante che decisamente eccelle anzitutto nella testa, e possiede potenza vocale, estensione, ricca gamma di colori e tecnica elevata nell’emissione. Il Don José di Azer Zada si distingue per grande chiarezza ritmica e precisione non comune nei crescendo e diminuendo, contornando anche psicologicamente le titubanze del brigadiere, mentre la potenza vocale di Vincenzo Nizzardo permette di enfatizzare il personaggio di Escamillo nelle sue tradizionali caratteristiche.
Sul podio, Laurent Campellone è davvero bravo a mettere la musica al servizio delle parti, dalle voci alla scena, ed a regolare il suono per far sentire molto bene le sezioni strumentali, separate quando necessario, oltre a dimostrare un forte ascendente sui musicisti.
Menzione particolare poi merita il coro, sempre compatto al punto di dare la sensazione di avere un’unica idea musicale, un chiaro segno del modo in cui il maestro Fabio Modica ha personalizzato un insieme che si distingue ormai a livello nazionale.
E con riferimento al coro, ecco ancora qualcosa di nuovo ma efficace: un diminuendo sul suo intervento nella Habanera (prend garde a toi!) alla fine della frase, quando "à toi!" si trasforma in un inatteso sottovoce.
Originalità nell'originalità, bisogna poi registrare un recupero dell’osservanza della tradizione nel momento in cui ascoltiamo con una certa sorpresa il recupero dei dialoghi parlati: scelta che nel suo essere così vicina alla Carmen che si vide all’Opéra-Comique, collima fortemente con l’attualizzazione, quel calarsi nell’oggi così ricercato da questa edizione.
Doppio finale
IV atto: C’est le jour d’un combat de taureaux! Dietro l’Alcalde, all'entrata della cuadrilla l'euforia è alle stelle, e sotto gli occhi degli spettatori i protagonisti in scena diventano essi stessi spettatori: tutto si trasforma infatti in un cinema all'aperto, e sullo schermo appare “Sangue Gitano” di Ernst Lubitsch (1918), antico caposaldo del cinema muto con Paola Negri, un modo per riconnettere il balzo temporale senza spostarsi mai dal luogo eletto, elemento di grande impatto visivo e significativo, poi messo fuori fuoco al momento dello scontro personale fra Carmen e Don José in maniera da mantenere saldamente l’atto determinante, come finora sempre promesso, nel tempo presente.