Macerata, arena Sferisterio, “Carmen” di Georges Bizet
CARMEN COME IN UN FILM AI TEMPI DI FRANCO
C’era grande attesa allo Sferisterio per il debutto nella regia lirica del due volte vincitore dell’Academy Awards Dante Ferretti, maceratese. Ferretti non decontestualizza Carmen ma la sposta in avanti, negli anni Trenta, in epoca franchista, che conosce bene per averla più volte frequentata cinematograficamente con grandi maestri. Toglie tutti gli orpelli che fanno “Spagna da cartolina” e mette sul palco un furgoncino, biciclette, un gelataio, balie con carrozzine, bambini e militari, giovani perditempo, uomini affaccendati, l'umanità reale e pulsante di un film neorealista. Con sguardo profondamente cinematografico. Riduce all’essenziale, partendo dall'architettura. Emerge in tutta la sua imponenza il grande muro dello Sferisterio (finalmente liberato da ogni manufatto), dove sono appuntate tre grandi tende avorio tese sopra il palco: chiunque sia stato a Siviglia anche una sola volta non può avere dimenticato quelle coperture stagionali sopra le vie del centro storico. Qui sono funzionali anche alla proiezione della voce che non si disperde verso l’alto.
Nel primo atto le tre grandi aperture nel muro introducono alla fabbrica delle sigaraie, con una sbarra a cui attendono i militari della storia. Al centro una panchina e una fontanella. Nel secondo atto il palco diventa l’interno dell’osteria; tende avorio sventolano sulle porte; intorno tavolini e sedie. Nel terzo solo un camioncino a evocare il contrabbando e nel quarto tre enormi manifesti della corrida. I costumi di Pier Luigi Pizzi contribuiscono in maniera significativa all'efficacia della ricostruzione e denotano perfettamente il contesto: camici grigi per le sigaraie, divise verdi con copricapo rigidi e lucidi per i militari; eleganza decò per gli abiti, da sera nell’osteria dove si balla il tango invece del flamenco, da pomeriggio elegante per la corrida.
Ferretti regista ha alcune intuizioni-citazioni. Nell’overture Carmen è in scena da sola, fuma seduta sulla panchina, spalle al pubblico. Durante la habanera spacca in due un’arancia e ne succhia la polpa. Nel finale invita Don Josè a pugnalarla, offrendogli il petto per un’immolazione inevitabile. Il flamenco è sostituito da tanghi stilizzati sia nel secondo che nel terzo atto (coreografie di Gheorghe Iancu). Però ciò non basta a rendere lo spettacolo accattivante e seducente: il pubblico non è conquistato. Infatti le masse sono statiche e i protagonisti si limitano all’essenzialità anche nella gestualità.
Fortunatamente si sono evitati molti stereotipi, presenti invece nelle tre precedenti Carmen di questa stagione (da me recensite nel sito) al Maggio, all’Opera di Roma e all’Arena di Verona. Questa Carmen ha i capelli lisci, è vestita di scuro, non scopre le gambe, indossa le scarpe. Micaela è mora, vestita di bianco/nero, senza scialle. Ma, le sigaraie fumano anche qui, forse temendo che il pubblico non le riconosca. E bambini e soldati fanno troppo rumore con quel marciare sulle tavole del palco avanti e indietro. Imprecise le luci di Sergio Rossi, soprattutto nel quarto atto: di certo saranno a punto per le repliche.
Sul podio Carlo Montanaro: l’inizio è velocissimo, poi un’alternanza di velocità e lentezza senza una idea precisa. Carmen ha un'orchestrazione di merletto, filiforme, ma il direttore non la mette in evidenza. E il pubblico lo fischia.
Nel ruolo del titolo buona performance di Nino Surguladze, la voce non è tonante ma è bella per colore ed è notevole la qualità dell'interpretazione; la georgiana predilige le incursioni nel registro grave, particolarmente seducenti, cantando una Carmen più contraltile che sopranile, una Carmen sfrontata, bella, sicura di sé, selvaggia, libera come un animale non addomesticabile che corre verso la libertà nel finale del primo atto, con le braccia in alto e i capelli al vento. Come da tradizione Micaela strappa l’applauso alla protagonista: Irina Lungu ha voce solida e registri curati, il legato è molto morbido ed il fraseggio pieno di sentimento. Philippe Do è un Don Josè leggero ma corretto, in un paio di passaggi ha difficoltà negli acuti ma la dizione impeccabile è intrigante, con quelle erre in leggera evidenza (è l’unico di madrelingua). L’Escamillo di Simone Alberghini ha bella presenza ma pochi colori nella voce e risulta debole nel grave: tonante ma non seducente (però anche lui finalmente evita l'atteggiamento da stereotipo). Con loro Alexandra Zabala (Frasquita), Paola Gardina (Mercédès), Francis Dudziak (Le Dancaire), Emanuele D'Aguanno (Le Remendado), Nicolas Courjal (Zuniga), Gezim Mischketa (Moralès). Brava la ballerina Anbeta Toromani. Poco preciso il coro preparato da David Crescenzi.
Peccato si sia scelta l’edizione con i recitativi accompagnati, invece che quella originale di Bizet oggi preferita. Sferisterio tutto esaurito da settimane. Pubblico freddo, pochi applausi sia durante la recita che alla fine, fischi per Montanaro, quasi silenzio per Ferretti.
Visto a Macerata, arena Sferisterio, il 25 luglio 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Arena Sferisterio
di Macerata
(MC)