Ed eccola nuovamente a Venezia la Carmen di Bizet con la quale Calixto Bieto – uno degli enfants terribles delle scene liriche – vinse sei anni fa il Premio Abbiati per la miglior regia. Una Carmen dalla scarnissima scenografia – unici elementi nel primo atto una cabina del telefono ed un'asta da bandiera, nel terzo la celebre sagoma del Toro Osborne – il cui forte impatto emotivo è frutto di una recitazione assai realistica e coinvolgente, con una notevole quantità di sesso, di violenza e pure di testosterone che bolle nelle vene dei maschietti in scena. Una Carmen poi alquanto attualizzata, dato che gli zingari viaggiano su vecchie Mercedes contrabbandando Lacoste, Ray-Ban e Nike; e così conosciuta, che perdersi in dettagli forse è inutile. Semmai, si può leggere l'ampia recensione apparsa allora sulla nostra testata.
Uno spettacolo all'insegna della sensualità
Andato in scena alla Fenice già nel 2012 e nel 2013, lo spettacolo di Bieito torna ora nell'attuale stagione veneziana con quella che oggi è la nostra zingara di riferimento, cioè Veronica Simeoni; e con uno dei migliori José in circolazione, cioè Roberto Aronica. Compagni nella vita, qualche volta – come ora - compagni sulla scena. Il vellutato e setoso timbro del mezzosoprano romano - unito alla pienezza dei registri ed alla finezza del fraseggio – riesce sempre nell'impresa di esprimere tutta la sensualità e la passione interiore della focosa zingara di Mérimée, con un canto dal tono discorsivo, flessuoso e vibrante. E ben centrata è la resa del carattere, dove la consapevolezza della propria avvenenza e il naturale desiderio di esercitare il proprio fascino si accompagnano all'insopprimibile bisogno di rifuggire da lacci troppo stretti.
Nei panni del dragone José, Aronica delinea un personaggio debitamente variegato. Sa essere vigoroso e passionale – e pure muscoloso, mai però esagerato o peggio volgare - quando le circostanze richiedono esercizio di virilità. Un uomo pronto a metter mano al coltello, sì, ma solo per difendere quanto ha di più caro; e quando serve – come nel duetto con Micäela, od ancor più nell'Aria del fiore – il tenore laziale mette in campo l'opportuna dose di franca sentimentalità, e in tal modo offre - infilando una dopo l'altra gradevoli volute melodiche - un appassionato racconto dei giorni di prigionia. Correttezza ed attrattiva di canto – la voce è fresca, pastosa, ben strutturata, imponente - e salda presenza scenica incontriamo anche nell'Escamillo di Vito Priante; Ekaterina Bakanova è una più che convincente Micäela – Bieito la vede come un'incolore ragazza che mira ad un borghesissimo ménage – perché sa essere graziosa, ma per nulla leziosa; e in più si mostra molto espressiva nel bel timbro sopranile e assai garbata nel delicato fraseggiare.
Un cast molto affiatato
Intorno al loro si muove un comprimariato realistico ed efficiente, composto dalla Frasquita di Claudia Pavone e dalla Mercédès di Laura Verrecchia, dal Dancaïre di Armando Noguera, dal Remendado di Loïc Félix, dal Moralès di Francesco Salvadori, dallo Zuniga di Matteo Ferrara. L'attore Cesare Baroni interpreta un Lillas Pastia in candido completo che, con ogni evidenza, è il capo degli zingari. Ottima prestazione dei due cori: quello della Fenice, diretto da Claudio Marino Moretti, e quello dei Piccoli Cantori Veneziani, preparati da Diana D'Alessio.
Poca poesia in orchestra
Molti direttori si sono avvicendati per le Carmen precedenti sul podio dell'Orchestra veneziana. Oggi presiede Myung-Whun Chung, e sceglie di imboccare una strada che porta ad una visione estroversa, ricca di tensioni, facilmente incline ai colori sgargianti; e qualche volta persino magniloquente, come nei momenti puramente strumentali. Una lettura in cui passione ed enfasi non mancano, ma la poesia rimane relegata sullo sfondo. Snellezza, eleganza, morbidezza restano quasi sconosciute alla sua energica bacchetta: ma il pubblico – dalle voci, in gran parte internazionale – lo ha apprezzato senza riserve.
(Foto di Michele Crosera)