Prosa
CASA DI BAMBOLA

Una messa in scena poco riuscita

Una messa in scena poco riuscita
Casa di bambola è uno dei testi più frequentati di tutto il teatro ottocentesco, perchè la forza innovatrice con cui si impose al mondo nel 1879, quando venne messo in scena per la prima volta (in Italia lo fu nel 1891 con Eleonora Duse nel ruolo di Nora), è ancora oggi viva e presente. La storia della giovane madre e sposa Nora che abbandona la casa del marito Torvald quando si accorge di stare crescendo come una bambola, prima nelle mani del padre (ora morto) e dopo tra quelle del marito, il quale non esita a interdirle la crescita dei figli perchè Nora ha contratto un debito con l'inganno per pagargli un anno di vacanza in Italia dove l'uomo si è ripreso da un esaurimento nervoso, si impone, così com'è, ancora oggi in tutta la sua forza, perché prima ancora che denunciare la necessità dell'emancipazione femminile, descrive con lucidità i rapporti tra uomini e donne non solo di allora ma ancora di oggi. Temendo un invecchiamento che, nel rappresentarla così com'è, Casa di bambola avrebbe potuto mostrare, il regista Eugenio Pochini interviene pesantemente sul testo e nell'allestimento dichiarando di volere improntare una messa in scena surreale ed assurda. Una scena sobria sostituisce gli interni borghesi naturalisti del testo originale, i costumi seguono la stessa stilizzazione sviluppati in una bicromia bianco nero che distingue le due donne (Karsten vestita di bianco, Nora di nero) e gli uomini (i cui costumi combinano entrambi i colori). Una scenografia interessante che toglie quel che di vivo (e per il regista dunque datato) c'è nel dramma per arrivare all'essenza della sua opera da restituire al pubblico direttamente. Per questo il regista appronta dei tagli considerevoli al testo alcuni minori e comprensibili (le scene con i figli non indispensabili nell'ottica della semplificazione scenica) altri meno comprensibili (gli accenni all'invecchiamento di Karsten che giustificano il fatto che Nora non la riconosce subito) rendendo la piéce troppo schematica e certe considerazioni di Torvard incomprensibili (certi accenni all'eredità del carattere di Nora da quello si duo padre, qui generiche accuse mentre nel testo originale è detto come l'uomo fosse indebitato e mezzo truffatore e si fosse salvato grazie al suo intervento...). Altri tagli sono invece del tutto ingiustificabili, soprattutto il lungo dialogo nel terzo atto dove Nora spiega al marito non solo il suo diritto all'autodeterminazione non in quanto donna ma in quanto essere umano (fulcro etico di Ibsen) ma anche la consapevolezza della sua inadeguatezza alle complessità del mondo e la necessità che si allontani da quella casa per poter finalmente, prima ancora di crescere, fare una verifica generale; nella versione della Compagnia del Gabbiano Nora proclama la sua indipendeza ma resta a casa (come d'altronde impose l'attrice Reiman-Raabe a Ibsen in Germania, rifiutandosi che la sua Nora abbandonasse i figli rimanendo, nonostante tutto, proprio per loro). Tolti gli elementi che spiegano la psicologia dei personaggi e, per così dire, la loro cifra esistenziale, il dramma perde in profondità e si appiattisce in uno schematismo da pamphlet rivendicativo (come è stato più volute liquidato). La regia però non sostiene questa stringatezza scelta come cifra stilistica, che se visivamente è molto interessante avrebbe necessitato di una direzione degli attori con più nerbo per ottenere l'effetto voluto, invece lungi dal risultare intenzionalmente caricaturali e grotteschi rimangono a metà del guado lasciando lo spettatore da solo nell'interpretare il loro registro recitativo che, se non spiegato altrimenti, viene interpretato comunque come naturalistico e tutt'altro che surreale laddove il regista pretenderebbe che i suoi interpreti rompessero addirittura la quarta parete (...) calati in una pantomima fatta di nascondersi ed apparire. Il primo errore del regista è il naturalismo di fondo con cui, pur in questa essenzialità scenica, i personaggi si muovono: le loro emozioni sono quelle "concrete e vere" della realtà, non surreali e grottesche, altrimenti perchè sottolineare i momenti di tensione con delle musiche, eleganti e sobrie, ma pur sempre atte ad amplificare l'emozione contingente e non a sottolineare (casomai) l'universalità simbolica di quel che si va raccontando? Nora viene mostrata come una bambola di per sé e non in funzione degli altri come dice il testo, in una vulgata che ha avuto già tanti precedessori ma che, non per questo, risulta meno errata con la conseguenza che la sua interprete Marzia Romildo sta tutto il tempo a gingillarsi con una bambola di pezza con una recitazione da bambina viziata... Krogstad (l'uomo che ricatta Nora per il prestito avuto) viene presentato quasi come un gangster ante litteram con la voce insistita sui bassi costringendo Francesco Paolo Scafato a una recitazione monocorde e involontariamente parodistica. Antonio Tricamo è un Torvard pavido chiuso nel ruolo di marito tutto lavoro e morale ben diversamente da quello di Ibsen (dove, nel finale originale, rimane a vagheggiare che la sua Nora un giorno tornerà mentre si sente la porta di casa sbattere segno che Nora se è appena andata). La mancanza però temiamo non sia tutta del regista ma anche degli attori la cui recitazione è troppo approssimata per far pensare a uno stile registico che costringe i personaggi al ruolo di maschere, con l'unica eccezione di Pietro Morachioli che non è per niente maschera ma completamente personaggio credibile e romantico (a causa della malattia che lo condanna a morte certa così giovane) per la sua maggiore centratura nella recitazione, laddove gli altri sono sempre poco centrati e in alcuni momenti stonati. Nonostante questi forti limiti lo spettacolo sa farsi vedere grazie alla forza di un testo che pur se stravolto da una lettura scenica poco o niente risolta sa imporsi allo spettatore in tutta la sua forza e dirompenza.
Visto il 10-03-2010
al Agorà 80 Sala B di Roma (RM)