Il dittico per antonomasia mancava dalla Scala da trent'anni (1981, regia Zeffirelli); questa volta viene proposto rovesciato, prima Pagliacci e poi Cavalleria, anche se nel programma di sala sono mantenuti in ordine cronologico, prima Cavalleria e poi Pagliacci. Due opere diversissime tra loro che la consuetudine ha abbinato. Giustamente Mario Martone ha concepito due parti completamente slegate l'una dall'altra, entrambe di grandissimo impatto emotivo e visivo.
Pagliacci è ambientata sotto un cavalcavia di periferia, prostitute appoggiate ai piloni di cemento coi resti di affissioni a brandelli, rami rinsecchiti, a terra chiazze d'erba, brandelli di una natura sbiadita e schiacciata dall'antropizzazione. Una berlina coi fari accesi passa sullo sfondo, una roulotte non nuova e non pulita è piazzata in primo piano: all'interno dello sportello tanti adesivi delle tante città di un vagabondare non sempre scelto volontariamente. È questo il paesaggio di una umanità desertificata, inaridita.
Tonio si aggira straniato, come un animale braccato e in cerca di preda, al tempo stesso. Poi si avvicina al proscenio e il sipario si chiude per l'aria del prologo, in cui Tonio di rivolge al pubblico, che diventa necessariamente partecipe, in quanto i protagonisti entrano ed escono dalla platea (utilizzando le due ali che sovrastano ai lati il golfo mistico, come Martone già fece nella Trilogia mozartiana del San Carlo): ad esempio durante la pantomima Silvio è seduto in poltrona in prima fila e alcuni coristi sono nelle barcacce.
Poi si riapre il sipario. Nedda è dentro la roulotte, un braccio penzola fuori dal finestrino, lo sguardo perso nel nulla: desidera un altrove, è nello spleen dell'amore. Un amore di slanci, tenerezza, sostegno sentimentale che contrasta con l'amore mercenario che si offre a pochi metri. Entrano due vecchi furgoni, un Fiat verde e un Ford marroncino, carichi di giocolieri e saltimbanchi. Il coro, borghesi eleganti e distaccati, è in alto, sopra il cavalcavia: sotto c'è una umanità da guardare da una distanza.
Martone è bravissimo a disegnare in modo evidente e convincente le dinamiche tra i personaggi, la brama di Tonio, la arroganza di Canio, le paure di Nedda, la dolcezza di Silvio, l'innocenza di Peppe. Personaggi sovrastati da un cielo anonimo, sgranato, piatto: senza uscita. Prima grigio, come il cemento e lo smog, come le periferie: della città e del cuore. Un cielo che si tinge pian piano di rosa, poi rosso, infine azzurro.
Nedda è infelice, desidera un altrove. Un altrove che non è certamente Canio, un uomo sbruffone, che deve far vedere a tutti il potere sulla sua donna (rectius sopraffazione verso i deboli). Canio con il doppiopetto gessato, la camicia nera, la cravatta bianca, la collanona d'oro. Canio subito pronto a colpire e menar le mani. Canio, che non può essere più distante da Nedda, fragile, fragilissima con la gonna scampanata di pizzo rosa e la maglietta maculata fucsia. Nedda, commovente con gli abiti di un passato splendore (o di un altrui splendore) e l'ombretto di lustrini. Nedda che ama Silvio perchè è tenero, gentile, è uno degli “altri” ma è uno “fuori dal coro”. Silvio arriva in una vecchia BMW, ha il fermacravatte d'oro ma non è pacchiano, né vistoso: l'abito è di sartoria, forse cucito su misura, gli sta a pennello. Ed è perfetto con quel look da bravo ragazzo un po' contestatore, la basettona lunga sul viso di carnagione chiarissima, i ricci scuri e folti portati un po' lunghi.
Il cast deve necessariamente essere vocalmente adeguato ma anche attorialmente perfetto. Kristine Opolais è una Nedda di struggente commozione, emblema dell'infelicità, una donna giovane dalla bellezza fragile; il soprano supplisce a qualche carenza vocale con una aderenza al personaggio straordinaria; la sua fine è toccante: pugnalata a morte, resta a terra, nell'indifferenza generale, nel dolore straziante del solo Silvio, lontano in platea, trattenuto da due amici. Gli altri guardano. E basta. Nedda resta a terra, in mezzo alla folla ma sola, con il vestito bianco lungo indossato con tutta evidenza sopra il precedente vestito rosa. Incongruente. Come un amore infelice.
Josè Cura è un Canio non giovane, anche lui incredibilmente identificato con il personaggio che la regia vuole, al quale riesce ad adattare la voce nel miglior modo possibile. Ottimo Ambrogio Maestri, un Tonio non scemo o intellettualmente deficitario, ma un escluso (in un contesto di esclusi); manesco con Nedda e servile con Canio, Tonio indossa un gilet di paillettes sotto un abito logoro, usato, con camicia a righe perfettamente fuori luogo. Celso Albelo è Peppe, voce bellissima, pulita e facile all'acuto nella sua serenata a Colombina, quando esce dalla buca del suggeritore col cappello da pirata. Mario Cassi è Silvio, perfetto per vocalità e fisicità: la voce è morbida e suadente, coi registri tutti a fuoco; il bell'aspetto lo favorisce nella resa del personaggio, anche grazie a un look curato. Con coro i contadini (qui borghesi) Ernesto Panariello e Nicola Pamio.
Da citare, per la fondamentale importanza nell'economia dello spettacolo, gli ottimi acrobati: Anne-Lise Allard, Damien Droin, Joris Frigerio, Sandrine Juglair e Matthieu Renevret.
Cavalleria rusticana è immersa in un nero essenziale, assai significativo, opprimente e totalizzante, che inghiotte tutto e tutti, come la gelosia e la solitudine (quando si ama senza corrispondenza, o, ancor peggio, senza più corrispondenza). Martone sottolinea la coralità dell'atto unico senza necessariamente scadere nella meridionalità scontata, anzi esaltando la forza universale dei sentimenti.
Durante la sinfonia un bordello attraversa lentamente il palco, come un iceberg nel mare; ne esce Alfio, che poi va dal barbiere: l'ipocrisia di una società maschilista. Ipocrisia alla base delle scelte registiche di tutta l'opera: efficacissimi gli sguardi obliqui e imbarazzati di Lucia quando vede Santuzza; significative le spalle dei coristi che partecipano alla messa, le teste voltate all'unisono e di scatto al sentire che Santuzza è scomunicata. La scena è fatta solo di sedie, ogni persona reca una sedia. La maestria del regista è massima e gioca tutto negli atteggiamenti e nelle posizioni. I coristi dispongono all'inizio le sedie ordinatamente, come in chiesa. Luce crepuscolare cade dall'alto e di taglio. Lo spazio è al tempo stesso interno (chiesa) ed esterno (piazza): un crocifisso cala verso il fondo e i coristi si girano. Un'unica sedia rimane rivolta verso il pubblico, la sedia di Santuzza, la donna che non accetta passivamente il destino, che si oppone all'ipocrisia del paese.
Il sacrificio, anzitutto: viene sgozzato un agnello. Si celebra la messa e il rituale è puntualmente seguito: il corteo di preti e chierichetti con turiboli e messale, candele e crocifisso, l'elevazione, le braccia aperte per il Padrenostro, la comunione. Nel finale le sedie vengono poste in posizione circolare, quasi antico odeon: uomini e donne si aggirano come falene dentro una lampada. Il nero lambisce tutti, tutti vestiti di nero, grigio e marrone; solo Lola è in rosso, ma spento, scuro, di sangue rappreso. Efficace il suo ingresso dalla barcaccia, quell'indugiare sul parapetto per sistemarsi le scarpe.
Il finale mi ha ricordato “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo: scena vuota, urlo da fuori “hanno ammazzato compare Turiddu” e i tutti che irrompono in scena dal fondo, dal buio.
Luciana D'Intino è una Santuzza di grande enfasi nella gestualità e nella voce sontuosamente scura, grande e rotonda, che inonda il teatro; la “mala Pasqua” è cavernosa, echeggiate, da diva del passato; durante l'intermezzo si aggira, con ieratica lentezza, tra i coristi seduti. Giuseppina Piunti è una Lola subdola, che cerca soddisfazione incurante di causare altrui sofferenze, smaniosa. Yonghoon Lee è un Turiddu febbrile e dalla voce potente. Ivan Inverardi è un corretto Alfio. Meno incisiva vocalmente la Lucia di Elena Zilio, curata dal punto di vista attoriale.
Daniel Harding affronta le due partiture con grande rigore, cercando anche di rispecchiare le scelte registiche in uno spettacolo potente perchè costruito da tutti secondo un progetto condiviso. Dirige l'ottima orchestra scaligera con grande respiro e tempi perfetti, ottenendo una grande tensione drammatica. In Pagliacci è attento a mettere in luce le novità già novecentesche, in Cavalleria a far sentire le ventate profondamente ottocentesche. L'orchestra risponde con grande carisma, le arcate giganteggiano, le sezioni tutte a fuoco.
Coro in stato di grazia, preparato da Bruno Casoni, attorialmente stupefacente.
Teatro gremito, vivo successo, moltissimi applausi.