Lirica
CAVALLERIA RUSTICANA

La "Cavalleria" secondo Pippo Delbono

La "Cavalleria" secondo Pippo Delbono

Un grande ambiente spoglio, delimitato da alte pareti di legno scuro, con porte sui lati e sul fondo. Questa è l’austera ambientazione (disegnata da Sergio Tramonti) che incornicia la Cavalleria rusticana scelta per inaugurare il “San Carlo Opera Festival”, breve stagione estiva del massimo partenopeo. Lo spettacolo, che ha attirato un folto pubblico senza però far registrare il tutto esaurito, riprende la regia firmata nel 2012 da Pippo Delbono, suscitatrice già all’epoca di reazioni disparate.
L’idea alla base dell’allestimento è la partecipazione attiva (se non addirittura invadente) del regista: anziché operare nascostamente, anziché celarsi nei gesti degli attori e nella conduzione complessiva dell’azione, il poliedrico artista ligure entra personalmente in scena in momenti e con funzioni diverse. All’inizio fa la sua comparsa in smoking al confine tra platea e buca d’orchestra e introduce la performance leggendo un breve testo; poi sale e scende dal palcoscenico per mezzo di una passerella laterale, entra ed esce ora con passo lieve e ora con moto concitato, sparge petali di fiori tra il pubblico, scruta, balla, gesticola, fugge. Insieme con lui, ma collocato in uno speciale bozzolo espressivo e in una dimensione cinetica del tutto diversa, agisce Bobò (al secolo Vincenzo Cannavacciuolo), un attore sordomuto e claudicante che Delbono ha ‘scoperto’ in occasione di un’esperienza laboratoriale condotta presso il manicomio di Aversa e ha successivamente coinvolto in molte delle sue produzioni teatrali.


Attraverso frequenti incursioni e interferenze più o meno vistose, il regista diventa parte integrante della finzione e, allo stesso tempo, testimone della rappresentazione in corso, osservatore interno (e colluso) che certifica gli accadimenti. In più di un passaggio, inoltre, egli si presta a veicolare una sorta di drammaturgia vicaria, visto che sono i suoi atteggiamenti a esplicitare il senso e ad amplificare il clima emotivo della congiuntura scenica. E tuttavia, mentre queste apparizioni esauriscono ben presto il proprio coefficiente di sorpresa e di interesse, lo spettacolo scorre privo di grandi intuizioni e si attesta su una marcata staticità para-oratoriale che prosciuga i movimenti di attori, coristi e figuranti (vestiti da Giusi Giustino con abiti di foggia borghese che poco concedono al colore e nulla al folklore).


A tratti il senso di fissità sembra contagiare anche la musica, complice una certa discontinuità nella conduzione di Jordi Bernàcer alla testa dell’orchestra sancarliana; il coro, diretto da Sergio Caputo, ha svolto la sua parte più che dignitosamente. Il cast vocale ha offerto una prova complessivamente buona. Anna Pirozzi ha conferito un forte spessore drammatico al personaggio di Santuzza e convincente è risultata la Lola di Asude Karayavuz; un po’ nasale Giovanna Lanza nel ruolo di mamma Lucia. Sul versante maschile, Rafael Davila (Turiddu) e Angelo Veccia (Alfio) hanno gareggiato in generosità e irruenza.

Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)