Prosa
C'è DEL PIANTO IN QUESTE LACRIME

Sceneggiata amara

Sceneggiata amara

C’è del pianto in queste lacrime, diretto da Antonio Latella per la drammaturgia dello stesso Latella e di Linda Dalisi, venne messo in scena già nel 2012, ottenendo nell'anno seguente il premio Le Maschere per la scenografia ed i costumi; lo spettacolo sembra trarre spunto da La Metamorfosi di Franz Kafka, in quanto viene proosta una forte riflessione sul depauperamento dei legami familiari e dei suoi valori, e sul conseguente pessimismo verso l’uomo. Altro importante elemento che rimanda al racconto kafkiano sono i costumi, realizzati da Simona d’Amico, che rappresentano insetti. In questo modo si va a rendere visiva e tangibile la spoliazione dell’uomo delle sue più alte qualità scaraventandolo sul gradino più basso della scala sociale, mentre le entità disumanizzate non rappresentano insetti, e tuttavia lo divengono ontologicamente.

È in questo contesto che si assiste ad un annullamento dei valori familiari e della stessa entità ed identità di famiglia, nucleo primario per la costituzione di una realtà sociale. Tale svilimento avviene nel contesto di una tematica cara alla società napoletana, ossia la “sceneggiata” di cui Latella, per capovolgimento rispetto alla tradizione, porta in superficie l’amarezza fino all’estremo: “sceneggiata”, quindi, non diviene sinonimo di messa in scena teatrale, quanto di messa in scena di vite condotte con ipocrisia e falsità. Il male della società di cui si fanno portatori gli attori si riversa anche su coloro che ne sono inizialmente estranei, ovvero i bambini, fino a renderli come fantocci incapaci di sognare. A tanto vale il costume indossato da Emilio Vacca, che rimanda ad un celeberrimo personaggio come Edward-mani di forbice, nato dalla fantasia visionaria di Tim Burton, che suscita nello spettatore la parvenza di qualcosa di artificiale, accentuata grazie al riverbero delle suggestive luci disegnate da Simone De Angelis.

I bambini dalle menti sane ma soffocate, che nel dramma sono entrambi impersonati dallo stesso Vacca, sono considerati dalla società intossicata come dei malati, ed essi possono essere o portati a soccombere per quel veleno lentamente instillato, o a vivere rinunciando a tutto il male, proteggendosi dal morbo comune ed eliminandolo violentemente ma in maniera indolore.

In C’è del pianto in queste lacrime, l'imbarbarimento al quale si assiste viene simboleggiato anche dall’uso di una lingua napoletana per la maggior parte “traviata”, “abbassata”, ma comunque funzionale, alla riflessione a cui Latella vuole spingere lo spettatore. In tal modo si arriva ad impoverire anche il contesto entro cui si svolgono le scene e si presentano le storie dei personaggi, essendo la lingua il mezzo attraverso cui l’anima si esprime. L’impoverimento espressivo va, inoltre, di pari passo con quello estetico investendo anche la scenografia: la dimensione umana si annulla, l’uomo si aliena da se stesso e tutto ciò pare sottolineato proprio dalla scenografia creata da Simone Mannino, scarna ed “opprimente”: essa infatti si presenta fisicamente come uno spazio stretto e basso entro cui i personaggi sono costretti a muoversi curvi come a voler simboleggiare il peso delle loro storie. Emblematico, infine, pare il titolo che racchiude tutto un senso di rammarico, sia di chi muore e chi vive: c’è del pianto in queste lacrime, ma invisibili appaiono le lacrime che lo esprimono.

Visto il 13-10-2015
al San Ferdinando di Napoli (NA)