Da solo in scena un infermiere di manicomio la faccia ricoperta di biacca e con bardatura cosacca scopre una scrivania e una colonna, coperte da degli spessi lenzuoli, e porta in scena, letteralmente, due attori e un'attrice, anch'essi coperti da lenzuoli, come fossero delle statue.
Dopo una posa adorante nella quale un attore e l'attrice venerano il terzo attore, legato per le mani, riconosciamo nelle dinamiche drammaturgiche dei tre attori alcuni elementi de Il giardino dei ciliegi di Cechov che, assieme a Il gabbiano e al Marat/Sade di Peter Weiss fungono da PreTesti (come riportato nel volantino) per il Cehov Marat Sade della compagnia Phi che ha come sottotitolo Della vacuità dell’Essere Italiano ovvero il suicidio della Rivoluzione.
Un genuino esperimento ipertestuale tra il teatro borghese cechoviano che da un lato rappresenta la cultura teatrale tout-court dall'altro la tradizione teatrale ingombrante e vilipesa (e parodiata) del teatro vetusto cui contrapporre la modernità dell'impegno politico del teatro impegnato così come lo aveva concepito nei tardi anni 60 Peter Weisss in un suo testo famoso nel quale il Marchese De Sade allestisce, nel manicomio dove trascorre gli ultimi anni della sua vita, uno spettacolo sull'assassinio di Marat (molto indovinata ed elegante la rielaborazione di questa parte dello spettacolo, con il riferimento preciso al quadro di David).
Tra paralleli tra passato e presente un poco didascalici (l'ipoteca del giardino dei ciliegi che diventa il Fus, tra i suoi compratori il nome di Berlusconi vagamente svoietizzato) e rimandi alla cultura televisiva (il vecchio inizio trasmissioni della Rai tratto dal Guglielmo Tell di Rossini, cantato a cappella, la musica del vecchio intervallo Rai che impone continue pause agli attori) lo spettacolo si dipana in un susseguirsi di contrapposizioni tra testi diversi legati dai quattro interpreti della compagnia che hanno la giusta presenza scenica per dare credibilità all'operazione di contaminatio in cui la riscrittura scenica dovrebbe approdare al discorso sulla contemporaneità italiana che lo spettacolo si prefigge. Il condizionale è d'obbligo perchè questo oltre stenta ad arrivare allo spettatore. Il vero nucleo drammaturgico infatti non sta nela trasfigurazione dei testi che, rimaneggiati e diversamente allestiti arrivano a dire altro, ma rimane un gioco intertestuale nel quale lo spettatore è chiamato a decodificare i rimandi ai testi cechoviani e a quelli (più evidenti) al Marat Sade di Weiss. La progressione drammaturgica promette un nuovo contenuto che però non arriva mai per davvero e spiazza lo spettatore non abituato a un testo che gli parla senza aver instaurato con lui alcun patto narrativo.
Contrariamente alle intenzioni programmatiche del suo autore (che si possono leggere nel programma di sala1) Cechov Marat Sade rimane un dignitoso divertissement che intrattiene e diverte, fa sorridere e in alcuni casi ridere, che fa sicuramente anche pensare ma la forma rimane forma e il capovolgimento della forma nel nuovo contenuto come critica al presente non avviene mai davvero. Manca un vero discorso politico che, a causa di un certo velleitarismo che tradisce una sottile presunzione di fondo (basta leggere le note di regia...), solo in parte giustificata dalla giovane età degli interpreti, si pretende debba scaturire dall'operazione sul testo ma così non è.
Dispiace dirlo ma Cechov Marat Sade lascia un po' il tempo che trova. Abbiamo scherzato signori! paia che dica alla fine lo spettacolo ai suoi spettatori. Tornate pure all'alveo dal quale per un'ora di spettacolo vi abbiamo illuso di potervi affrancare.
E l'attesa di un oltre che non arriva mai ricorda un po' l'esortazione A Mosca! A Mosca! di un'altra celebre commedia di Cechov che ben esprime la cifra di un popolo come quello italiano che vorrebbe cambiare solo a parole ma al quale, e dovremo farcene tutti una ragione prima o poi, la situazione attuale del Paese sta più che bene.
1) Sebbene l’opera sembri risentire ancora del vecchio topos del Teatro-Nel-Teatro, è in realtà una duplice rappresentazione, in cui una è l’allegoria dell’altra, in uno slittamento perpetuo e satirico dei significanti, che portano l’opera a sollevarsi da un suo compito sociale o mimetico, cercando invece, attraverso i due mezzi della “Crudeltà” (Artaud) e del “Comico” (ancora Bene) di risvegliare le coscienze di chi guarda, di far scorgere il limite, molto sottile, che ci sta, ancora per poco, separando da una Macchina Sociale e Comunicativa bulimica ed ingorda, alimentare perché animale, avida e soprattutto violenta e spietata contro tutto quello che non riesce a trovare digeribile (mi sto riferendo, chiarisco, al concetto di “Storia come corteo dei vincitori” di W. Benjamin) ed assimilabile.