Lo spettacolo “Cemento”, della visionaria regista e coreografa Alessia Gatto, non è solo danza, ma racchiude in sé la forza e l’espressività contemporanea della video arte - grazie al contributo dell’artista Viola Pantano - l’energia delle musiche in cui elementi elettronici e atmosfere romantiche si incontrano dando vita ad una dimensione in cui le parole non sono necessarie – costruite per questa performance da Federica Italiano – ed all’atmosfera di mistero enfatizzata dai disegni di luce - merito di Marco Policastro. Un mix di menti ingegnose quindi, che ha reso questa esibizione pregevole ed emozionante.
La scena si apre con figure nere ed inquietanti che si muovono su un palcoscenico spoglio, con un solo elemento scenografico, che spicca quasi come un monito, costituito da un blocco di cemento posizionato in un angolo ed illuminato da una flebile luce.
I danzatori con i loro movimenti pesanti, volti a sottolineare il rapporto dell’umanità con la terra, vista come una sorta di “matrigna” che tenta di abbattere ed affossare chiunque cerchi di reagire al suo potere, danno vita ad un gioco di luci ed ombre che esalta e riempie la laconica scenografia.
La scelta di un genere di musica sperimentale/concreta che assume talvolta toni misteriosi e cupi, altri tristemente giocosi, mista a rumori di ingranaggi, grida e stridii, riesce ad enfatizzare gli elementi la coreografici che ricordano il moto di uccelli con ali spezzate e ancorati al suolo, animali feriti e spauriti incapaci di librarsi in volo.
I sentimenti che i protagonisti trasmettono sono di euforia e paura, una sorta di isteria che penetra sotto la pelle ed invade tutto il corpo suggerendo l’incapacità dell’uomo di vivere in armonia con la natura.
Mentre le ballerine attraversano un telo trasparente con rondini stilizzate tra le mani, si intuisce l’ambizione ed il desiderio di liberarsi dalle oppressioni per poter spiccare il volo, seguendo il simbolo di libertà che gli uccelli stanno a rappresentare. Battono con clamore i tacchi a spillo facendo vibrare il suolo come un sorta di tamburo che evoca riti tribali e ricordi ancestrali.
La scenografia poi, si arricchisce con due cubi costruiti dai protagonisti in cui questi ultimi si muovono come in una prigione, presi dalla frenesia del lavoro e dell’ambizione fino a perdere di vista le cose importanti. In questo si denota un forte riferimento all’idea di straniamento di Bertlod Brecht. Alla fine i cubi vengono posti l’uno dentro l’altro con al centro il blocco di cemento: non rappresentano più una prigione ma qualcosa con cui giocare e divertirsi. Ora è l’uomo a gestire lo spazio che essi occupano e quindi non costituiscono più il simbolo dell’oppressione ma della liberazione dovuta a saper gestire gli interstizi e le costruzioni della civiltà moderna.
Nonostante alcune forzature, il lavoro funziona, ma l’esperienza più importante che offre la visione di questo spettacolo è la possibilità di riflettere sulla sfida che quotidianamente ci si trova ad affrontare, quella cioè del saper conciliare la natura e il progresso e nell’imparare che è tutto un equilibrio tra stasi e moto, tra la materialità del costruire ed il gioco impalpabile del volo.
Il disagio nasce quando all’equilibrio subentrano l’insoddisfazione e la bramosia che spingono a viaggiare come rondini alla ricerca di un luogo affine alla nostra natura. Ci si sposta allora dall’ambito esteriore a quello interiore, ma la vera prova che si affronta è la stessa dell’arte che cerca di esprimere la bellezza e l’illusorio ma soprattutto lo spazio illimitato e intangibile dell’ animo umano.